La volpe, l’uva e il fotografo

Un tempo uno dei desideri più diffusi tra i fotografi, parlandone da un punto di vista antropologico come di una tribù di cacciatori della steppa, era quello di catturare l’istante. Dicevano proprio così, “catturare l’istante”, usando una metafora come se si riferisse a qualcosa di reale. Sembra di capire che intendessero l’istante come un animale particolarmente furbo e rapido, una volpe ad esempio, e la loro ambizione fosse di portarsela a casa. Viva o morta non è ben chiaro. Cioè, davano l’idea di credere che la parola “istante” nominasse un evento naturale, e non una realtà artificiale, alternativa questa cui davano peraltro molta importanza. Sorvoliamo sul fatto che, qualsiasi cosa facessero, catturavano al più un’immagine chimica o digitale prodotta da fotoni su una superficie bidimensionale e sorvoliamo anche sul rapporto, davvero il tabernacolo dei misteri, tra quelll’immagine bidimensionale (qualsiasi figura, in verità) e la porzione di mondo catturata, su cosa viene prima e cosa dopo, e concentriamoci sull’istante.

Catturare è in sostanza un sinonimo di capire: agguantare e fare proprio, che sia una preda o un significato. Quali significati possiamo capire, cioè catturare? L’istante è uno di questi?

Intanto, non esistono significati al di fuori del lavoro umano (o forse vivente, ma solo a certe condizioni), il significato è un resto del lavoro, è “ciò che rimane per tutti nella forma di ciò che ci chiama a fare”. “Che ci chiama a fare” vuol dire che il significato di martello non è una qualche misteriosa essenza, è: battere. Corrispondiamo al significato, cioè lo capiamo e vi rispondiamo nell’azione successiva. Ma se il significato è un resto del lavoro umano sul mondo, il mondo non ha alcun significato e soprattutto non ne ha alcun bisogno, se intendiamo mondo come ciò che sta fuori dalla parola “mondo”: ha significato, bello o brutto che sia, ciò che produciamo; a partire ovviamente dai segni del linguaggio, la culla dei significati. Il linguaggio piega su di sé i gesti significativi del corpo (tra cui il gesto vocale), già in nuce pubblici, li stacca dal corpo, li rende riproducibili e programmabili e li fa diventare ciò che per tutti viene nominato e che ci invita ad agire: «Leone, scappare!». Il linguaggio che ci abita è la prima super-macchina, il primo automa, il primo algoritmo ed è ciò che infatti ci rende umani, ci descrive e ci scrive (lo è assieme al suo proprio resto, al resto che rimane una volta che il linguaggio ci conforma a sé: il sapere, come possesso e cattura dei significati, cioè di ciò che viene nominato per tutti, che quindi tutti possiamo avere come doppio del mondo, ma che per questo non possiamo più essere, quindi il sapere della morte, quindi anche la sepoltura e il rito danzante e l’arte come sua ulteriore piegatura, come raccolta e celebrazione del vivente accanto ai resti del non vivente).

Quando parliamo di istante, parliamo esattamente di uno di questi “significati”, cioè di resti del lavoro comune che valgono per tutti.

L’istante non è altro che il resto/significato/prodotto dell’otturatore meccanico e della sua capacità di aprirsi e chiudersi in modo più o meno veloce. Istante, prima dell’invenzione dell’otturatore, prima cioè che avesse un significato meccanico, aveva un significato chimico: era il tempo necessario affinché la lastra si impressionasse dopo che l’operatore aveva tolto a mano il tappo e finché lui non valutasse per esperienza che era il momento di rimetterlo: in qual lasso di tempo, in quell’istante, tutti dovevano stare ben fermi se no la foto veniva mossa. Oggi con l’otturatore elettronico istante è la frazione infinitesima di un secondo e ha quindi un significato elettronico. Ma non è che “secondo” sia meno artificiale, ovviamente: al tempo delle clessidre o delle meridiane non esistevano secondi, che sono un’invenzione dell’orologiaio. Oggi il “secondo” è una relazione tra la rotazione terrestre e l’oscillazione dell’atomo di cesio, precisamente l’intervallo di tempo che contiene 9.192.631.770 periodi della radiazione corrispondente alla transizione tra i due livelli iperfini dello stato fondamentale dell’atomo di cesio 133. “Basare la definizione sul comportamento di un atomo di cesio 133, invece che su quello di un qualche altro atomo su cui si potessero compiere misurazioni altrettanto facilmente, è stata una scelta in larga parte arbitraria”(*). Tutte le misure del tempo sono convenzioni. La nozione di istante dipende quindi dall’uso di uno strumento che retroagisce producendo un resto, cioè un significato tecnico (chimico, meccanico, elettronico) che informa di sé le nostre prassi diventando un abito, una seconda pelle, al punto da ritenerlo naturale. «Ovvio che ci sono gli istanti, chi ne dubita? Li posso misurare! Un millesimo di secondo, ecco qui! È naturale che ci siano!». Ma ovviamente anche “naturale” è una parola, cioè un segno, cioè un’altra prassi tecnica.

Alcuni autori concettuali, negli anni ’70, allo scopo di far emergere il fatto che noi usiamo le fotocamere ma anche viceversa loro usano noi (cioè: la tecnica retroagisce sulle nostre percezioni e concezioni), erano soliti fare reportage di eventi pubblici, concerti, manifestazioni e così via, limitando volontariamente la propria operatività secondo un protocollo (oggi diremmo un algoritmo), ad esempio in questo modo: «Arrivo sul posto, inizio a camminare in mezzo all’evento contando 10 passi, mi fermo e scatto una foto a destra, cammino per altri 10 passi, mi fermo e faccio una foto a sinistra, continuo in questo modo fino a uscire dall’evento dall’altra parte». «Che roba insensata e artificiale, come si potranno mai produrre materiali visivi interessanti in questo modo?», dice il fotografo. «Cartier-Bresson invece sì, lui voleva catturare l’istante decisivo». E cioè: limitava la propria operatività a una funzione tecnica della macchina, impostando l’impressione della pellicola a una frazione molto breve di un’unità convenzionale di misura del tempo e spostandosi rapidamente nei punti dell’evento in cui delle azioni erano in corso. Accidenti, le due pratiche sono molto meno lontane di quello che si pensi: entrambe dipendono da algoritmi, e anche i risultati, in effetti, lo mostrano piuttosto bene se solo li si guarda togliendosi le fette di salame umanista dagli occhi: al di là dell’ideologia su cuori e menti e altri organi interni, i risultati migliori e più originali di Bresson possono essere descritti per lo più come azioni sospese, inceppate, più precisamente come azioni “surreali”, in cui cioè il significato comune, i comuni commerci che ci fanno apparire il mondo come ovvio, vengono sospesi e disattivati secondo i principi della corrente artistica novecentesca chiamata surrealismo. È noto del resto che Bresson si formò nel surrealismo, quella è la sua matrice concettuale.

Facciamo ora un esperimento. Guardatevi intorno, ovunque voi siate: potete vedere qualcosa che non sia un significato (cioè il resto di un lavoro) precipitato in una prassi, in un oggetto, in una situazione o condizione? A meno che non siate nella foresta amazzonica (ma perché ci siete andati? E con quale mezzo?), giacché non esiste natura pre-umana al di fuori di posti simili, la quasi totalità di quello che state vedendo ora girando lo sguardo intorno a voi è un significato rappreso, il residuo di una trasformazione umana. Abitate dentro significati, li usate e ne siete fatti, costituiti, parlati, ma non li vedete perché vi sembrano ovvi, una seconda pelle.

Ora, il surrealista Bresson, attraverso un protocollo, usando cioè il risultato di un’operazione tecnica che produce un resto, il significato “istante”, cerca di mostrare il momento teorico (cioè, non l’istante, ma lo spazio concettuale) in cui i significati che abitano il nostro mondo umano e in cui noi abitiamo sembrano assenti, e lo sembrano proprio perché, ovviamente, “l’istante” non esiste in natura, la “nostra natura” in quanto viventi non conosce l’istante, per quanto possa convincersene, ma le durate: nelle durate, che raramente sono isocrone, sperimentiamo il lavoro dei corpi, nella durata gli occhi (che sono corpo, quindi: il corpo) si muovono continuamente,  esplorano, si slanciano e si ritraggono, toccano e ne ricevono rimbalzo, in un costante moto che deforma tutto lo spazio fluido di cui il corpo è parte. L’istante quindi può essere colto, catturato, compreso, capito, solo da una macchina, che estrapola e potenzia all’infinito la funzione umana: battere le ciglia. Ma ciò che la macchina ci restituisce, proprio perché solo lei può valicare i confini della percezione umana, è letteralmente inumano cioè senza significato e per questo ci affascina: è il bordo di senza senso che noi, immersi nel senso che produciamo e che ci ri-produce, non possiamo vedere, più di quanto possiamo uscire dal mondo per vedere il mondo o da noi stessi per vederci da fuori. È questa vertigine tecnica, il protocollo personale del surrealista Bresson imitato da legioni di fotoamatori senza idee, che ci affascina ancora, da sempre più lontano.

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