Fotografi e cacciatori


In un’intervista di Stefano Chiodi riportata su Doppiozero, Jean-Francois Chevrier, parlando delle fotografie di Raul Hausmann, ne ricostruisce così le intenzioni:

«Nel 1975 era uscito in Francia un libro di Michel Giroud dedicato a Hausmann intitolato Nous ne sommes pas des photographes, una frase (“noi non siamo fotografi”) ripresa da un testo del 1921 in cui Hausmann, il “dadasophe”, come si faceva chiamare, criticava la fotografia in quanto strumento di appropriazione estetica, vale a dire di una compulsione alla registrazione visiva che pone l’operatore in una posizione di dominio e di possesso. Si può essere artisti-fotografi solo lavorando contro la fotografia, producendo immagini che permettono di combattere l’atteggiamento compulsivo dell’appropriazione estetica. Agli occhi di Hausmann la fotografia è il sintomo di un handicap spirituale dell’essere umano, che lo spinge a sottomettere il mondo ai parametri meccanici indotti dall’obiettivo della macchina fotografica».

È una notazione bellissima: il fotografo/cacciatore mosso dal desiderio di possedere esteticamente ciò che registra/fotografa - adeguandosi così al carattere meccanico del gesto e dell’apparecchio - inteso come portatore di un handicap spirituale, di una perversione in forma di erotismo estetico, di una compulsione di cui, per fare davvero arte, ci si deve liberare.

E tuttavia, a ben vedere, quella di Hausmann assunta da Chevier (“occorre rifiutare l’appropriazione estetica, vale a dire la compulsione alla registrazione visiva che pone l’operatore in una posizione di dominio e di possesso”) potrebbe essere, almeno da un certo punto di vista, un’idea piuttosto ingenua, nel suo implicito modernismo. L’idea che si debba o si possa evitare la tendenza all’appropriazione estetica insita della fotografia (e intendo quella vertigine di desiderio che si prova nel fotografare un oggetto e vederlo in qualche modo “amplificato”, quasi vibrante, nell’immagine che “stacchi dal mondo” e ti porti a casa, e che Robert Adams descriveva così: «Per molti aspetti sceglieremmo di passare mezz’ora davanti al quadro di Edward Hopper intitolato “Domenica mattina” piuttosto che stare lo stesso tempo nella strada che ne è il soggetto») è un’idea di profilassi igienica che forse non coglie la complessità del tema.

Sottovaluta cioè il “potere dell’immagine”, qualsiasi essa sia, potere che noi definiamo appropriativo (ed estetico, nell’accezione contemporanea che ormai coincide con la teoria dl kitsch), ma che più all’origine è una manifestazione del potere di auto-etero-definizione proprio del segno: non ci sono - come ci ricorda sempre Carlo Sini - prima il soggetto e l’oggetto tutti formati, e poi i segni, appiccicati sopra o in mezzo, che li nominano e li uniscono (tra cui le immagini che li rappresentano). Soggetto e oggetto si formano poco a poco in una trafila di azioni, gesti, commerci di cui l’immagine è un limite decisivo ma non separato.

Accade come come nelle letture moderne dell’arte primitiva interpretata come “mentalità magica”: i primitivi, si dice, dipingevano bisonti sulle pareti delle grotte perché pensavano ingenuamente che agire sull’immagine volesse dire per magia agire sull’animale. Così “si appropriavano” (ecco l’origine del problema scorto da Hausmann) dell’anima dell’animale e andavano a caccia più fiduciosi.
Il processo andrebbe in realtà ribaltato: non c’è alcun bisonte e alcun umano in partenza, bisonte e umano si creano poco a poco, in secoli o millenni di evoluzione, stagliandosi da un orizzonte comune attraverso prassi e gesti che in nuce “fanno segno”, tra cui fuggire o ricorrere, venir attaccati o cacciare in gruppo per uccidere - azione che ne presuppone moltissime altre coordinate tra loro - nominare e dividersi la preda e così via. L’immagine dipinta allora non è un feticcio che unisce cacciatore e animale belli e formati, ma una soglia attraverso cui un animale diventa altro da sé ri-guardandosi e così crea sé e l’animale altro, cui continua tuttavia a essere legato come da un patto di sangue che è “fatto” proprio dai gesti, tra cui il ritrarre in immagine.

Dipingendo il bisonte l’uomo della pietra non pensa ingenuamente di appropriarsi di un altro essere, come pensano i moderni (dovrebbe essere del tutto scemo a pensare questo, e la magia non c’entra nulla con questa scemenza che è tutta moderna), semmai celebra una comune pro-venienza da uno stessa culla “naturale” e così facendo stacca, proprio nell’immagine, una destinazione che è solo “umana”: nell’immagine uomo e bisonte sono ancora lo stesso, sul punto di diventare altro l’uno dall’altro (nel diventare l’uno l’altro dell’altro). Entrambi si posseggono e nel gesto - che è quello dell’uccidere/essere uccisi e quello del dipingere, il primo come base del secondo che ne è la piegatura su se stesso, al quadrato - si uniscono e si dividono, all’infinito.

Nel fare immagine tutto questo è sempre presente (ci sarebbe da considerare semmai in che modo la fotografia rinnova a modo suo questo gesto), perché non ci siamo noi già fatti, e le cose già fatte, e poi le immagini che vengono dopo e uniscono i primi alle seconde, per cui il problema sarebbe depurare le immagini dal loro fondo primordiale e ingenuo ed “emotivo” fatto di pensiero magico e brama di possesso. È anzi questa visione a essere ingenua e a fraintendere come “brama di possesso” quella che è una rituale celebrazione - cioé una danza sul filo - di una provenienza comune tra “me” e “l’albero” che sto fotografando (atto che “mi rivela” quanto io e l’albero siamo in realtà prodotti finali e ultimi di infinite trafile di prassi e gesti simili a questo di fotografare), celebrazione che apre una sempre nuova distanza e destinazione interpretante e lo fa in e-mozione (che non è un palpito del cuore ma il far risuonare una pro-venienza). È l’esser comune che fa segno nel fare immagine e nell’istante stesso in cui lo fa, e proprio per ciò, diventa esser altro.

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