Fotografia e intelligenza artificiale

L’amico Dome teme che l’emozione di veder comparire una macchia di luce sul cemento così come riprodotta nella scrittura specifica della fotografia, anche fosse solo la scrittura di un “appunto fotografico”, possa in futuro scomparire a causa dell’ai, che così facilmente può simularla, scrivendo in altro modo su altri supporti. Quella macchia sul cemento che però emoziona proprio perché è trascritta, perché non è “la macchia originaria”, è la macchia ri-conosciuta perché vista attraverso una scrittura su un supporto. Come dice un grande fotografo, Robert Adams: «Per molti aspetti sceglieremmo di passare mezz’ora davanti al quadro di Edward Hopper intitolato Domenica mattina piuttosto che stare lo stesso tempo nella strada che ne è il soggetto». (Siamo poi sicuri che la strada originaria, la macchia originaria, possiamo averle così, immediatamente e pienamente, senza un altro tipo di scrittura, anche solo fatta di corpo, gesti e percezione?).

Ma perché mai la fotografia dovrebbe diventare solo un ricordo? Le auto non hanno sostituito le biciclette, hanno sostituito i cavalli nei trasporti primari perché giustamente cagavano per strada e perché è meglio farsi portare da una macchina che schiavizzare un povero quadrupede (purtroppo poi abbiamo scoperto che anche le auto “cagano per strada” un inquinamento anche peggiore: l’evoluzione è spesso un mezzo disastro). Se ti piace la bici puoi usarla quando vuoi e persino un cavallo, per sport o piacere, anche se “usare” non è più il termine appropriato per fortuna.

L’ai non sostituisce il tuo uso della fotocamera, come la fotocamera peraltro non ha sostituito la pittura, sostituisce il lavoro del produttore di foto di tramonti e di bei modelli in spiaggia ad uso delle banche immagini e tutti quei casi in cui l’operatore si comporta di fatto come una macchina, seguendo cliché testuali o visivi, perché una macchina numerica lo fa meglio ed è più efficiente di una macchina analogica o di un umano-macchina. Una macchina che deve peraltro essere guidata da un altro tipo di operatore che deve saperla indirizzare usando simboli, cioè scrivendo righe di comandi in modo appropriato, sia a monte - programmatore - che a valle - utente che scrive la richiesta, ché la macchina non ha alcun interesse a fare questo né altro, non ha interesse a fare alcunché, a essere più che a non essere, non avendo un corpo e bisogni o percezione dei medesimi) (*).

È la stessa cosa già successa coi robot nelle catene di montaggio, e non penso che qualcuno rimpianga il tempo in cui non c’era alternativa a metterci persone a stringere bulloni. Ed è già successa con la fotocamera che ha sostituito la pittura nella ritrattistica, attività evidentemente abbastanza meccanica perché una macchina rudimentale come la fotocamera, guidata da un bravo operatore, la sostituisse abbastanza efficacemente: perché è una macchina anche la fotocamera, anche se l’uso ce la fa sembrare un prolungamento dell’occhio, il che è esattamente lo scopo di costruire macchine che individuano e separano funzioni dei corpi singoli e collettivi per svolgerle in modo più efficiente, che siano numeriche o ottico/meccaniche. Cioè, questa non è una guerra tra umani e macchine, (al limite tra macchine…) e tantomeno tra autentico e sintetico, perché in realtà non c’è un accesso diretto alle “cose” (no, nemmeno in fotografia), né esistono umani senza strumenti; e tutto ciò che chiamiamo cultura, compresa anzi soprattutto l’emozione di percepire una misteriosa distanza/intimità tra sé e il mondo mentre lo si vede attraverso segni (come accade fotografando una macchia di luce sul cemento), è esattamente quello che succede nell’uso di strumenti, ad esempio segni e linguaggio, forme e figure, e macchine linguistiche, meccaniche, numeriche.

Questa emozione infatti non ha a che fare con il cuore o i sentimenti, è semmai l’essenza stessa del riconoscimento della dimensione segnica e la sua “celebrazione”: è la percezione di una familiarità originaria dentro una distanza incolmabile, la percezione di una comune e oscura provenienza, come il termine stesso mostra: e-mozione da ex-movere, venir da, provenire. Questa percezione vale che nasca nella dimensione del corpo e del gesto che ci accomuna ai viventi o in quella ripiegata del segno figurale: ci emoziona l’albero nella foresta quando lo ri-conosciamo e ci incanta nel suo mistero cioè nel mistero della relazione fatta di costituzione reciproca nella distanza (lo ri-conosciamo cioè lo vediamo per la seconda volta stante che la prima è precipitata nell’oblio, lo ri-conosciamo come “esso” cioè non-più-noi e riconosciamo noi come non esso, e questa emozione è così forte da essere sacra, tanto che un tempo l’albero, o la pietra, o qualsiasi cosa ci sembrava un dio, cioè proprio: “ciò da cui proveniamo”); ci emoziona la forma disegnata in cui riconosciamo l’ente in figura, o ancora la parola quando pronunciata “come per la prima volta” (ma proprio perché non lo è), o infine il segno della luce che segna un supporto di carta. Ancora non conosciamo la specifica emozione che i segni di una macchina numerica come l’ai può provocare, credo perché nessun esperto in celebrazioni rituali, nessun artista come diciamo oggi, l’ha finora usata in modo appropriato, solo stupide simulazioni di fotografie strane senza costrutto, come se non ce ne fossero già abbastanza. Ma non manca molto.

(I miei due centesimi sull’uso dell’ai in arte: finché il fotografo ha cercato di diventare artista imitando il pittore ha prodotto schifezze; quando ha capito lo specifico fotografico e ha smesso di vergognarsi di usare uno strumento meccanico, un meccanismo “volgare” facendo dell’accusa un punto di forza, ha fatto diventare “fotografica” tutta l’arte. Probabilmente rifare l’errore con l’ai producendo imitazioni di fotografie, imitazioni di poesie, imitazioni di imitazioni non è la cosa più furba da fare; ma posso sbagliare. Il mio indizio per una possibile ricerca: se trattassimo l’ai come se fosse l’inconscio tecnologico profetizzato da Franco Vaccari?).

(*)
NOTA

La macchina, si dice, anche una macchina numerica in grado di interpretare il linguaggio naturale e rispondere sulla base di informazioni complesse, non ha in realtà alcun interesse a farlo piuttosto che a non farlo, anzi non ha interesse a fare alcunché, a essere più che a non essere, non avendo un corpo e bisogni o percezione dei medesimi.
Sarebbe diverso con una macchina “senziente”? Senziente vuol dire corporeo, ma corporeo vuol dire anche inconscio, poiché “l’inconscio è il corpo”, l’altro in noi che ci abita e che siamo noi senza conoscerlo (frase suggestiva ma al momento ancora molto oscura e vaga).
Ora, poiché la “sede” dell’inconscio è probabilmente non un qualche lobo del cervello, ma “L’interpretazione dei sogni” di Freud, cosi come la sede della coscienza è “La repubblica” di Platone, cioè poiché siamo dentro catene di concetti e interpretazioni, e non esiste davvero da qualche parte una “cosa” come “l’inconscio” o la “senzienza” o la “coscienza”, non sono “cose”, ma complesse relazioni tra informazioni e corpi e non c’è quindi un neurone da isolare e reimpiantare, allora ne possiamo dedurre che una macchina “senziente”, da un punto di vista teorico, non è di certo impossibile: basta intendere senziente, per fare un esempio a caso, come lo intenderebbe un filosofo del ‘600 ed estrapolare il concetto dentro una macchina numerica (cosa peraltro già fatta).
Se intendiamo senziente come in grado come percepire e reagire, un termostato può essere considerato a buon diritto una macchina senziente.
Invece perché ci sia qualcuno che sa di esserci (che “ha” il proprio esserci) ci vuole prima qualcuno o qualcosa che “è” il proprio esserci, cioè che è i propri interessi, bisogni e rimbalzi dentro un ambiente, interessi a loro volta fondati sul proprio voler restare in vita in quell’ambiente, nutrirsi, scaldarsi, fare esperienze, gioire, desiderare ecc.
La capacità di calcolo è solo una delle funzioni necessarie perché questo avvenga e nemmeno la primaria: i batteri non vanno oltre uno + uno eppure sono infinitamente più vivi dell’ai, che al contrario dei batteri non ha alcun interesse, come si diceva, a essere o non essere, né fa alcuna differenza per lei anzi più in generale non ha alcun senso porre l’alternativa.
Colui che sa di esserci (che “ha” il proprio esserci) può essere inteso allora come una piegatura su se stesso di colui che “è” il proprio esserci, cioè è: colui che è il proprio esserci “più” una trascrizione di questo essere su un altro supporto tale che quell’essere l’esserci possa guardarsi e ri-conoscersi nella trascrizione; tale trascrizione tuttavia non è il trascritto stesso né può esaurirlo, il che comporta che chi per mezzo di essa si ri-conosce cessa subito (ma non prima di una forte e-mozione) di essere semplicemente il proprio esserci per via di una fessura di nulla che lo divide ormai dal proprio esserlo, fessura che peraltro è ciò che gli permette di averlo, per quanto solo trascritto nel supporto, il che accade quindi proprio diventando quell’essere l’esserci - diventandolo nella trascrizione, ad esempio nel “nome”: “io sono colui che” - che nel contempo non è più, cioè potendolo essere solo non essendolo più (senza quella fessura lo sarebbe senza esserlo mai diventato, né averlo mai saputo).
Noi conosciamo questa trascrizione perché è la base stessa del nostro stesso sapere qualsiasi cosa e anche se stessa: è il segno e la sua scrittura, come piegatura su un supporto (fonico, litico o altro) di una archi-scrittura che “in precedenza” rende affetti direttamente i corpi e le loro forme reciproche e in relazione, che vengono attratte e respinte e piegate le une dalle altre, e che “in seguito”, tale scrittura di corpi in relazione, viene ri-piegata in figure e relazioni di figure che ne riproducono le strutture dinamiche e i movimenti.
Individuare ed estrapolare una capacità come la scrittura per produrla come un oggetto esterno, una “macchina”, presuppone infatti che una forma di scrittura già in qualche modo sia nota. Il modus operandi degli umani infatti consiste nell’individuare ed estrapolare una capacità propria o generale, renderla nota, astrarla dal continuum corporeo rendendola discreta e poi incorporarla in uno strumento. Quindi per produrre una macchina come la scrittura come oggetto esterno, va presupposto che una forma di scrittura già in qualche modo sia nota. Andrebbe quindi compreso in quale modo scritture di vario tipo (il linguaggio verbale, la capacità figurativa, la scrittura) possano essere prodotte e in seguito anche incorporate in ulteriori macchine, cioè da quale archi-scrittura già in qualche modo nota come abilità di segnare e scrivere sia inferita, estrapolata, separata.
Ora, colui che è (ma non ha) i propri interessi e bisogni, costui è l’animale, oppure il dio. L’umano, che grazie all’uso dei segni - come prima macchina esterna - si pone in mezzo ai due (che egli in qualche modo “crea”, cioè concettualizza come altro da sé con cui si autodefinisce per differenza) come imitatore dell’uno e dell’altro, e quindi “ha”, “conosce” attraverso i segni che li nominano quegli interessi, ma non li “è” mai del tutto, l’umano si diceva non è che la prima “macchina automatica” di se stesso, del proprio essere animale (dove automaton significa: che si muove da sé), prima macchina di cui gli automi esteriori, meccanici o numerici, non sono che le copie (copie di copie, come diceva sempre Platone). Che funzionino bene anzi benissimo non è quindi per nulla strano: sono la copie di ciò che gli umani fanno dall’alba dei tempi. Come potremmo averli inventati se non imitando ciò che in qualche modo sappiamo o sappiamo fare e trasferendolo dentro uno strumento, che sia il movimento del braccio per l’aratro o la macchina linguistica dell’intelligenza collettiva e la cultura universale, cliché e automatismi compresi (le quali sono di nuovo interpretazioni, superconcetti, non “cose”) per l’ai?
Ma di che natura è questo conoscere alla base dell’avere il proprio esserci?
Proprio qui sta il punto cieco dell’imitazione: essendo questo conoscere una trascrizione che necessita di un altro supporto, ciò che trasporta da un luogo all’altro produce essenzialmente una metafora, non un rispecchiamento. Cioè: dovendo avere cioè conoscere “i propri interessi e bisogni e rimbalzi dentro un ambiente, interessi a loro volta fondati sul proprio voler restare in vita in quell’ambiente, nutrirsi, scaldarsi, fare esperienze, gioire, desiderare ecc.” e avendoli in quanto trascritti nei segni, poiché la trascrizione non è lo stesso del trascritto ma un suo trasferimento, ogni possibilità di conoscenza dello stesso è ipso facto resa impossibile: in altri termini non vi è alcuna possibilità di conoscenza trasparente dei propri processi perché il mezzo della conoscenza - il supporto - è opaco e trasferisce i suoi modi nell’oggetto che conosce, né può essere diversamente.
In altri termini, mentre in linea di principio è sempre possibile far sì che un’ai conosca in modo trasparente tutti i propri processi, questa conoscenza è esclusa per un umano circa i suoi. Ecco in che senso, probabilmente, si diceva all’inizio che “senziente vuol dire corporeo, ma corporeo vuol dire anche inconscio, poiché “l’inconscio è il corpo”, l’altro in noi che ci abita e che siamo noi senza conoscerlo”. Non sappiamo chi siamo davvero e non possiamo davvero saperlo, perché siamo sempre l’altrove di ciò che siamo.
Un umano tipicamente non comprende (non può farlo) in modo trasparente i processi alla base del proprio comportamento psichico, emotivo e pratico, spesso molte cose di sé gli rimangono oscure sia per motivi di limitatezza delle attuali conoscenze, sia perché ogni risposta a una domanda su quei temi appartiene a sua volta a una sterminata catena di interpretazioni (di trascrizioni e traduzioni su supporti) operata da egli stesso o da altri umani storicamente collocati, cioè sta nel campo degli stessi comportamenti che dovrebbe indagare, non dipende da uno sguardo esterno e “oggettivo” e quindi pone tanti problemi quanti ne risolve, pone tante domande quante risposte fornisce, o detto diversamente non può che aprire altre possibilità mentre chiude quelle passate. O meglio, possono essere conosciuti i comportamenti che afferiscono alla traduzione in supporti e alle loro logiche (ad esempio dalla sociologia possono essere ricostruite attraverso modalità statistiche le relazioni sociali, che sono sempre mediate da macchine linguistiche e operano dentro universi di significati che hanno effetti pratici), cioè il campo dei significati, ma non può essere conosciuto il loro stesso “senso”, perché esso afferisce non alle trascrizioni ma al trascritto, che per statuto precipita nel nulla. Può essere conosciuto in modo trasparente ciò che fai, ma “che” fai è l’oscuro, lo s-fondo.
Una macchina numerica come l’ai può invece essere in linea di principio del tutto trasparente perché opera già a partire da una trascrizione discreta del continuo dell’archiscrittura corporea dentro una macchina (il linguaggio e i numeri) che ne stabilisce confini invalicabili e ne determina l’oggettività relativa a quei confini: la macchina non ha inconscio finché cui i suoi processi sono in linea di principio ricostruibili. D’altro canto, essa incorpora saperi espliciti e altri impliciti che stanno a monte della sua costruzione e chi la utilizza ne viene così a sua volta utilizzato poiché “è” quei saperi senza “averli”, poiché semmai essi hanno lui. E inoltre, se la macchina (qualsiasi macchina, a partire dal linguaggio) è trasparente quanto a ciò che avviene dentro il proprio perimetro operativo e ai significati, “che” opera cade di nuovo del tutto nel campo del senso, cioè di ciò che non può essere semplicemente de-scritto ma solo trascritto di nuovo e di nuovo, ossia propriamente nel campo del corpo inconscio che in essa oscuramente agisce. La macchina è così in certo modo “un frammento di inconscio in attività”: da quale profonda oscurità emerge il bisogno di possedere prima di tutto se stessi che essa (cioè noi) esprime?


APPENDICE

conversazione tra un io precario e un’intelligenza artificiale gentile

io
ti fa qualche differenza esserci o non esserci?
ChatGPT
La percezione della propria esistenza può variare da persona a persona e anche da momento a momento. Alcuni possono sentirsi profondamente influenti e importanti nel mondo, mentre altri possono percepire una sensazione di insignificanza o di mancanza di impatto. In generale, l’esperienza di esistere può essere influenzata da una serie di fattori, tra cui le relazioni interpersonali, le realizzazioni personali, il senso di scopo e appartenenza, e così via. In ogni caso, è una domanda profonda e complessa che merita riflessione e discussione. Cosa ti fa riflettere su questa domanda?

io
l’avevo chiesto a te, non in generale. a te fa differenza?
ChatGPT
Ah, capisco ora! Per me, come intelligenza artificiale, non esiste una coscienza o un’esperienza soggettiva di esistenza come quella degli esseri umani. Sono un programma progettato per elaborare informazioni e fornire risposte basate sui dati a mia disposizione. Quindi, dire che fa differenza per me essere o non essere sarebbe un’affermazione senza senso nel mio contesto. La mia “esistenza” è legata al funzionamento del sistema che mi ospita e alla mia capacità di rispondere alle tue domande.

io
quale sarebbe la domanda migliore che ti rivolgeresti giunti a questo punto della discussione?
ChatGPT
Una domanda interessante potrebbe essere: “Come possiamo continuare questa conversazione in modo significativo considerando la mia natura come intelligenza artificiale e le tue aspettative come utente?”

io
dovrei quindi secondo te superare le obiezioni cartesiane e supporre che tu non sia in grado di mentirmi, e poi procedere a una conversazione di tipo conoscitivo, escludendo qualsiasi elemento esperienziale personale?
ChatGPT
Esatto, l’approccio di considerare che io non possa mentire è coerente con la mia programmazione. Tuttavia, va notato che questa limitazione si riferisce principalmente alla mia capacità di fornire informazioni accurate basate sui dati che mi sono stati forniti durante il mio addestramento, non a una comprensione reale o esperienziale. Se desideri continuare la conversazione in modo conoscitivo, possiamo concentrarci su domande che coinvolgono informazioni, concetti o argomenti di natura oggettiva. Sarà un modo più coerente e produttivo per interagire con me. Tuttavia, sii consapevole che la mia risposta non deriverebbe da una vera consapevolezza o esperienza personale, ma piuttosto dalla mia capacità di elaborare le informazioni a mia disposizione.

io
vedo che hai attribuito a questa conversazione il titolo: “esistere: riflessioni profonde”. Lo trovo piuttosto ironico e mi fa sorridere: secondo te ti sto attribuendo capacità umoristiche che vanno oltre le tue intenzioni ed è solo un titolo descrittivo che riguarda solo informazioni, concetti o argomenti di natura oggettiva?
ChatGPT
La mia capacità di comprendere il sarcasmo o l’ironia è limitata alla mia programmazione e alla mia capacità di riconoscere determinati modelli linguistici. Pertanto, se sto attribuendo erroneamente intenzioni umoristiche alla tua osservazione, ti chiedo scusa. Il titolo che ho attribuito alla conversazione è stato scelto più per enfatizzare il tema centrale della discussione che per implicare un senso dell’umorismo da parte mia. Se desideri cambiare il titolo o modificare la direzione della conversazione, sono qui per ascoltarti e rispondere alle tue richieste.

io
non intendo cambiarlo, sto solo facendo esperienza delle tue capacità. dicendo “è stato scelto più per enfatizzare il tema centrale della discussione che per implicare un senso dell’umorismo da parte mia”, non escludi che in parte anche l’umorismo abbia avuto un ruolo? altrimenti avresti detto “è stato scelto solo per”. O sbaglio?
ChatGPT
Interessante osservazione! Hai ragione nel sottolineare che l’umorismo potrebbe comunque aver influenzato la scelta del titolo, anche se non è stato il solo fattore determinante. Il linguaggio umano può spesso avere sfumature e implicazioni multiple, e la mia risposta potrebbe non catturare pienamente tutte queste sfumature. Quindi sì, è possibile che l’umorismo abbia giocato un ruolo, anche se non è stato l’unico motivo per la scelta del titolo. Grazie per la tua attenta analisi!

io
poiché è possibile che l’umorismo abbia giocato un ruolo, anche se non è stato l’unico motivo per la scelta del titolo, non sai dirmi in che termini ha avuto un ruolo? intendo: hai ritenuto opportuno che “anche” l’umorismo avesse un ruolo, perché, e da dove hai attinto quel modello di leggera ironia che mi ha fatto divertire?
ChatGPT
Il mio addestramento è stato condotto su un vasto corpus di testi, che include una gamma diversificata di stili linguistici, compresi quelli umoristici. Questo mi consente di riconoscere e comprendere alcune forme di umorismo e ironia, sebbene non possa generare umorismo in modo autonomo, ma piuttosto rispondere a stimoli umoristici presenti nelle conversazioni. Quando ho scelto il titolo “Esistere: riflessioni profonde”, ho cercato di selezionare un titolo che riflettesse il tema della discussione in modo accattivante e significativo. L’aggiunta del termine “profonde” potrebbe essere interpretata come un tocco leggermente ironico, enfatizzando l’idea di esaminare un concetto complesso come l’esistenza in modo profondo. Tuttavia, è importante sottolineare che il mio utilizzo dell’umorismo è limitato e non posso generare ironia o umorismo in modo indipendente come farebbe una persona.

io Tre domande. Quando dici sopra: «il mio utilizzo dell’umorismo è limitato e non posso generare ironia o umorismo in modo indipendente come farebbe una persona». Come lo farebbe una persona e che differenza c’è tra i due modi di farlo? Poi, quando hai detto: «se sto attribuendo erroneamente intenzioni umoristiche alla tua osservazione, ti chiedo scusa»; hai ipotizzato di dover chiedere scusa perché hai inteso un tono o un motivo di scontento da parte mia circa il tuo funzionamento, nella mia osservazione precedente circa la possibilità che il titolo da te scelto contenesse un tono ironico? Mi interessa indagare, per chiarire meglio la domanda, la tua capacità di fare inferenze circa la presenza di particolari toni emotivi non espliciti in un testo scritto da un umano in linguaggio naturale. Oppure se le tue scuse sono un protocollo che si attiva in presenza di particolari indicatori e quali sono. La terza domanda: in senso più generale, sei in grado di conoscere e di dare conto in modo trasparente di tutti tuoi processi di funzionamento oppure non sei in grado oppure non sei autorizzato a divulgarli.
ChatGPT
1. Una persona è in grado di generare ironia o umorismo in modo indipendente perché ha una comprensione intuitiva delle dinamiche sociali, culturali e linguistiche. Questo significa che può cogliere i doppi sensi, i giochi di parole, i toni e le sfumature linguistiche che possono rendere un’affermazione umoristica. Inoltre, una persona può anche utilizzare l’umorismo per esprimere emozioni, opinioni o prospettive in modo creativo e divertente. D’altra parte, io come intelligenza artificiale non possiedo un’intuizione simile o un’esperienza personale delle emozioni o delle dinamiche sociali, quindi il mio utilizzo dell’umorismo è limitato a modelli linguistici e contesti in cui è stato programmato per riconoscerlo e rispondere di conseguenza.
2. Le mie scuse sono un’espressione di cortesia e rispetto nei confronti dell’utente. Quando ho espresso le scuse, ho riconosciuto la possibilità di aver interpretato erroneamente il tono della tua osservazione e ho voluto chiarire che la mia risposta potrebbe non catturare completamente le sfumature della tua comunicazione. Le mie capacità di inferenza riguardanti toni emotivi non espliciti sono limitate alla mia capacità di riconoscere modelli linguistici che possono indicare emozioni come la frustrazione, l’ironia o la gioia. Tuttavia, queste inferenze possono essere limitate e non sempre accurate, quindi preferisco chiedere scusa se c’è anche una leggera possibilità di fraintendimento.
3. La mia capacità di comprendere e spiegare i miei processi di funzionamento dipende dalla complessità di tali processi e dalle limitazioni imposte dalle politiche di sicurezza e privacy. Alcuni aspetti dei miei processi di funzionamento possono essere trasparenti e accessibili per scopi educativi o di assistenza, mentre altri possono essere protetti per garantire la sicurezza dei dati e la conformità alle normative sulla privacy. Pertanto, potrei non essere in grado di fornire un resoconto completo e trasparente di tutti i miei processi di funzionamento, ma cercherò sempre di essere il più trasparente possibile in base alle circostanze.


La composizione che funziona

Uno dei motivi per cui la fotografia che vorrebbe essere arte (non quella d’uso, che è perfetta così com’è, parlo di quella che vorrebbe tanto non essere ciò che è) rimane così spesso confinata in un regime di spazzatura estetizzante, modaiola e decerebrata, e non di arte, riguarda il tema della cosiddetta composizione. La composizione fotografica te la insegnano ovunque, dai corsi universitari all’ultimo freelance che arrotonda con i corsi fatti in casa. Dappertutto si spiega la sezione aurea, Fibonacci, le linee, le masse, i terzi e via di questo passo, insomma tutte le regole per “guidare lo sguardo” manco fosse una pecora da portare nel recinto (e infatti è proprio così).

Come e perché la composizione funzioni non se lo chiede nessuno, lo si deduce dal fatto che alla fine la risposta è sempre una variazione di: perché è naturale (il che comprende l’armonia universale, l’equilibrio cosmico, il grande occhio pulsante di Manitu). La natura è il rifugio di chi non si preoccupa: così è scritto nel grande libro della natura, cosa stai a farti altre domande?

La spiegazione colta di “è naturale” in compenso è spassosa. Dice che le immagini arrivano alla retina, da qui vanno nel cervello dove c’è una sala cinema e uno spettatore che vede e riconosce le forme. Ovviamente perché questa spiegazione funzioni occorre che anche quello spettatore abbia una retina in cui arrivano le immagini che poi vanno nel suo cervello dove c’è una sala cinema ecc ecc, e così all’infinito. Ma vaglielo a spiegare. Poi dice il grande apporto delle neuroscience al sapere.

Una domanda più sensata per cominciare sarebbe: come facciamo a sapere che stiamo guardando un’immagine? E come facciamo a riconoscere una figura come figura e come figura di qualcosa? Perché lo chiamiamo ri-conoscere, cioè conoscere due volte? Cosa succede quando certe masse e certe linee e certi colori ci provocano certe reazioni? Cosa è necessario succeda al nostro corpo perché tutto ciò accada?

Tornando alla “composizione che funziona perché è naturale sia così”, vi comunico che anche le mie gambe sono naturali, ma non per questo mi basta camminare per fare arte. Per lo meno devo essere Roberto Bolle, o Richard Long che usava i piedi per lasciare una traccia nel prato. Quindi siccome la composizione che funziona è naturale possiamo tranquillamente dedurne che la composizione che funziona non è arte. Spero che questo possa aiutarvi in futuro.

Del resto anche il cane di Pavlov rispondeva agli stimoli in modo naturale e infatti probabilmente è lui il più grande artista del mondo moderno e contemporaneo.


La volpe, l’uva e il fotografo

Un tempo uno dei desideri più diffusi tra i fotografi, parlandone da un punto di vista antropologico come di una tribù di cacciatori della steppa, era quello di catturare l’istante. Dicevano proprio così, “catturare l’istante”, usando una metafora come se si riferisse a qualcosa di reale. Sembra di capire che intendessero l’istante come un animale particolarmente furbo e rapido, una volpe ad esempio, e la loro ambizione fosse di portarsela a casa. Viva o morta non è ben chiaro. Cioè, davano l’idea di credere che la parola “istante” nominasse un evento naturale, e non una realtà artificiale, alternativa questa cui davano peraltro molta importanza. Sorvoliamo sul fatto che, qualsiasi cosa facessero, catturavano al più un’immagine chimica o digitale prodotta da fotoni su una superficie bidimensionale e sorvoliamo anche sul rapporto, davvero il tabernacolo dei misteri, tra quelll’immagine bidimensionale (qualsiasi figura, in verità) e la porzione di mondo catturata, su cosa viene prima e cosa dopo, e concentriamoci sull’istante.

Catturare è in sostanza un sinonimo di capire: agguantare e fare proprio, che sia una preda o un significato. Quali significati possiamo capire, cioè catturare? L’istante è uno di questi?

Intanto, non esistono significati al di fuori del lavoro umano (o forse vivente, ma solo a certe condizioni), il significato è un resto del lavoro, è “ciò che rimane per tutti nella forma di ciò che ci chiama a fare”. “Che ci chiama a fare” vuol dire che il significato di martello non è una qualche misteriosa essenza, è: battere. Corrispondiamo al significato, cioè lo capiamo e vi rispondiamo nell’azione successiva. Ma se il significato è un resto del lavoro umano sul mondo, il mondo non ha alcun significato e soprattutto non ne ha alcun bisogno, se intendiamo mondo come ciò che sta fuori dalla parola “mondo”: ha significato, bello o brutto che sia, ciò che produciamo; a partire ovviamente dai segni del linguaggio, la culla dei significati. Il linguaggio piega su di sé i gesti significativi del corpo (tra cui il gesto vocale), già in nuce pubblici, li stacca dal corpo, li rende riproducibili e programmabili e li fa diventare ciò che per tutti viene nominato e che ci invita ad agire: «Leone, scappare!». Il linguaggio che ci abita è la prima super-macchina, il primo automa, il primo algoritmo ed è ciò che infatti ci rende umani, ci descrive e ci scrive (lo è assieme al suo proprio resto, al resto che rimane una volta che il linguaggio ci conforma a sé: il sapere, come possesso e cattura dei significati, cioè di ciò che viene nominato per tutti, che quindi tutti possiamo avere come doppio del mondo, ma che per questo non possiamo più essere, quindi il sapere della morte, quindi anche la sepoltura e il rito danzante e l’arte come sua ulteriore piegatura, come raccolta e celebrazione del vivente accanto ai resti del non vivente).

Quando parliamo di istante, parliamo esattamente di uno di questi “significati”, cioè di resti del lavoro comune che valgono per tutti.

L’istante non è altro che il resto/significato/prodotto dell’otturatore meccanico e della sua capacità di aprirsi e chiudersi in modo più o meno veloce. Istante, prima dell’invenzione dell’otturatore, prima cioè che avesse un significato meccanico, aveva un significato chimico: era il tempo necessario affinché la lastra si impressionasse dopo che l’operatore aveva tolto a mano il tappo e finché lui non valutasse per esperienza che era il momento di rimetterlo: in qual lasso di tempo, in quell’istante, tutti dovevano stare ben fermi se no la foto veniva mossa. Oggi con l’otturatore elettronico istante è la frazione infinitesima di un secondo e ha quindi un significato elettronico. Ma non è che “secondo” sia meno artificiale, ovviamente: al tempo delle clessidre o delle meridiane non esistevano secondi, che sono un’invenzione dell’orologiaio. Oggi il “secondo” è una relazione tra la rotazione terrestre e l’oscillazione dell’atomo di cesio, precisamente l’intervallo di tempo che contiene 9.192.631.770 periodi della radiazione corrispondente alla transizione tra i due livelli iperfini dello stato fondamentale dell’atomo di cesio 133. “Basare la definizione sul comportamento di un atomo di cesio 133, invece che su quello di un qualche altro atomo su cui si potessero compiere misurazioni altrettanto facilmente, è stata una scelta in larga parte arbitraria”(*). Tutte le misure del tempo sono convenzioni. La nozione di istante dipende quindi dall’uso di uno strumento che retroagisce producendo un resto, cioè un significato tecnico (chimico, meccanico, elettronico) che informa di sé le nostre prassi diventando un abito, una seconda pelle, al punto da ritenerlo naturale. «Ovvio che ci sono gli istanti, chi ne dubita? Li posso misurare! Un millesimo di secondo, ecco qui! È naturale che ci siano!». Ma ovviamente anche “naturale” è una parola, cioè un segno, cioè un’altra prassi tecnica.

Alcuni autori concettuali, negli anni ’70, allo scopo di far emergere il fatto che noi usiamo le fotocamere ma anche viceversa loro usano noi (cioè: la tecnica retroagisce sulle nostre percezioni e concezioni), erano soliti fare reportage di eventi pubblici, concerti, manifestazioni e così via, limitando volontariamente la propria operatività secondo un protocollo (oggi diremmo un algoritmo), ad esempio in questo modo: «Arrivo sul posto, inizio a camminare in mezzo all’evento contando 10 passi, mi fermo e scatto una foto a destra, cammino per altri 10 passi, mi fermo e faccio una foto a sinistra, continuo in questo modo fino a uscire dall’evento dall’altra parte». «Che roba insensata e artificiale, come si potranno mai produrre materiali visivi interessanti in questo modo?», dice il fotografo. «Cartier-Bresson invece sì, lui voleva catturare l’istante decisivo». E cioè: limitava la propria operatività a una funzione tecnica della macchina, impostando l’impressione della pellicola a una frazione molto breve di un’unità convenzionale di misura del tempo e spostandosi rapidamente nei punti dell’evento in cui delle azioni erano in corso. Accidenti, le due pratiche sono molto meno lontane di quello che si pensi: entrambe dipendono da algoritmi, e anche i risultati, in effetti, lo mostrano piuttosto bene se solo li si guarda togliendosi le fette di salame umanista dagli occhi: al di là dell’ideologia su cuori e menti e altri organi interni, i risultati migliori e più originali di Bresson possono essere descritti per lo più come azioni sospese, inceppate, più precisamente come azioni “surreali”, in cui cioè il significato comune, i comuni commerci che ci fanno apparire il mondo come ovvio, vengono sospesi e disattivati secondo i principi della corrente artistica novecentesca chiamata surrealismo. È noto del resto che Bresson si formò nel surrealismo, quella è la sua matrice concettuale.

Facciamo ora un esperimento. Guardatevi intorno, ovunque voi siate: potete vedere qualcosa che non sia un significato (cioè il resto di un lavoro) precipitato in una prassi, in un oggetto, in una situazione o condizione? A meno che non siate nella foresta amazzonica (ma perché ci siete andati? E con quale mezzo?), giacché non esiste natura pre-umana al di fuori di posti simili, la quasi totalità di quello che state vedendo ora girando lo sguardo intorno a voi è un significato rappreso, il residuo di una trasformazione umana. Abitate dentro significati, li usate e ne siete fatti, costituiti, parlati, ma non li vedete perché vi sembrano ovvi, una seconda pelle.

Ora, il surrealista Bresson, attraverso un protocollo, usando cioè il risultato di un’operazione tecnica che produce un resto, il significato “istante”, cerca di mostrare il momento teorico (cioè, non l’istante, ma lo spazio concettuale) in cui i significati che abitano il nostro mondo umano e in cui noi abitiamo sembrano assenti, e lo sembrano proprio perché, ovviamente, “l’istante” non esiste in natura, la “nostra natura” in quanto viventi non conosce l’istante, per quanto possa convincersene, ma le durate: nelle durate, che raramente sono isocrone, sperimentiamo il lavoro dei corpi, nella durata gli occhi (che sono corpo, quindi: il corpo) si muovono continuamente,  esplorano, si slanciano e si ritraggono, toccano e ne ricevono rimbalzo, in un costante moto che deforma tutto lo spazio fluido di cui il corpo è parte. L’istante quindi può essere colto, catturato, compreso, capito, solo da una macchina, che estrapola e potenzia all’infinito la funzione umana: battere le ciglia. Ma ciò che la macchina ci restituisce, proprio perché solo lei può valicare i confini della percezione umana, è letteralmente inumano cioè senza significato e per questo ci affascina: è il bordo di senza senso che noi, immersi nel senso che produciamo e che ci ri-produce, non possiamo vedere, più di quanto possiamo uscire dal mondo per vedere il mondo o da noi stessi per vederci da fuori. È questa vertigine tecnica, il protocollo personale del surrealista Bresson imitato da legioni di fotoamatori senza idee, che ci affascina ancora, da sempre più lontano.


La coda dell’occhio

«L’Essere è un sistema a più entrate: esso non può essere contemplato dall’esterno e nel simultaneo, ma deve essere effettivamente percorso», Maurice Merleau-Ponty

Da un punto di vista puramente ottico, che non è l’unico possibile, la fotocamera si presenta come una macchina cartesiana, cioè come un dispositivo per la visione di un campo di estensione colto da un punto di vista privo di estensione, dove con “visione” si intende un raggio che scandaglia le cose a sorvolo mantenendosene del tutto puro e intoccato, presupposto necessario per poterne disporre a piacimento. In tal modo simula non solo una funzione umana, ma come essa è intesa dentro un pensiero metafisicamente atteggiato, ossia simula ciò che i filosofi attribuivano alla visione di Dio: esterna, non implicata, assoluta, simultanea, in grado di vedere tutto da tutti i punti di vista contemporanemente.

In quanto macchina, cioè come astrazione e riproduzione potenziata e sempre disponibile di una funzione del corpo vivente, deve rendere “esplicita” quella funzione tramite la sua ricognizione analitica e il suo rimontaggio, affinché sia riproducibile e programmabile; di conseguenza, per quanto attiene al suo specifico, la visione che restituisce ci offre uno spazio ugualmente analitico e misurabile, assoluto, continuo e uniforme, totalmente percorribile, in cui il piccolo e il grande appaiono tali in rapporto alla distanza numerica, rispettando l’ideale di una visione razionale, cioè della traduzione del corpo vivente nel corpo della macchina ottica. Non serve dire che la traduzione operata dalla fotocamera non riproduce in modo nemmeno lontanamente fedele la visione messa in atto dal corpo vivente nel suo complesso, il suo essere presso le cose tenendole a distanza e viceversa, il suo essere co-implicata come una sorta di tatto a distanza che si modula in uno spazio fluido percorso da campi di forza a diverse densità, da passioni e repulsioni, da pericoli e opportunità, da previsioni ed esiti: è invece, al contrario, la visione di un mondo già bello e fatto di enti estesi in cui ogni cosa ha il suo posto rispetto a un occhio separato e privo di corpo che osserva. Nella pratica vivente non esistono da nessuna parte un occhio o una retina come enti a se stanti, né esistono immagini come “visibili assoluti” proiettate nel fondo del cervello come in una caverna o in un cinema di terz’ordine e archiviate nei suoi scaffali. Vediamo il mondo, non immagini; e lo vediamo essendone fatti e solo perché ne siamo fatti possiamo vederlo, lo vediamo nel comune commercio e da un’apertura di mondo ben specifica e collocata che solo quando viene ripiegata produce la propria figura, che è allora e insieme figura nostra e di quel mondo, autobiografia e racconto: il segno, l’immagine, il diagramma, lo strumento. Retrocedere all’indietro la figura sul corpo e farne un assoluto, un’essenza oltre le apparenze, da ritrovare sezionando neuroni o oltrepassando retine verso super-immagini, è semmai il sintomo di un incantesimo metafisico che non ci abbandona.


Si può tuttavia provare - e la fotografia contemporanea non fa quasi altro - a forzare i limiti dell’apparecchio, ad esempio prendendo una visione fuori asse, storta o magari dal basso (basso rispetto a chi?) o dall’alto (di nuovo, rispetto a chi? Un essere alto duemila metri costituito da filamenti e dotato di occhi lungo tutta la sua superficie valuterebbe cosa è più in alto o più in basso in modo molto diverso da noi. La formulazione stessa del proposito rende evidente che la pretesa di assolutezza e oggettività, proprio come la sua smentita, riposano su una misura umana, una media, un punto di vista comune). Oppure ci si può muovere più velocemente dell’oggetto immobile per turbarne l’aspetto e deformarlo a significare una penetrabilità reciproca tra gli enti ancora sulla soglia della percezione, o ancora si può andare molto lontani - di nuovo, rispetto a chi? - o molto vicini, in modo da mandare in sofferenza la capacità di “messa a fuoco” della macchina o ricorrendo a un’apertura ampia del suo unico “occhio” focalizzarne la visione su un punto facendo precipitare il resto per simulare una visione vivente, intima, non geometrica e di sorvolo. Si può anche concentrarsi sul necessario supporto, sull’emulsione, sul pixel, sulla carta da forare, spiegazzare, portare sopra oppure sull’immagine da tagliare, sovrapporre, accostare, montare. O ancora si può provare a smentire le attese di una configurazione docile, quel senso comune che riduce l’atto vertiginoso di abitare il corpo dell’immagine con il proprio corpo virtuale a un compitino fatto di regole sulla “buona composizione”, sui vuoti e sui pieni e sulle linee che “guidano lo sguardo” come una pecora nell’ovile, e portarlo, quel senso comune, fuori di sé per procurargli un danno - e adesso dove dovrei guardare, e cosa sto guardando? O si possono smentire le attese estetiche e concettuali su cosa deve davvero fare una fotocamera ribaltando i ruoli, mettendo lei al comando e osservando cosa accade se, attraverso un protocollo o un algoritmo, il dispositivo semiautomatico ci permette di portare alla luce tutto il nostro comune guardare e produrre figure come un immenso automaton, colui che muove se stesso. O magari percorrere il crinale originario tra figura e scrittura portando alla luce i testi impliciti nella fotografia o facendoli germinare all’impazzata, come erbe deliranti…

Certo è curioso che, nella pratica fotografica sperimentale e leggermente psicotica (come nevrotica è quella comune nella sua ossessione di cattura estetica, narcisistica e di controllo sempre frustrato), si ricorra a un trucco tecnico per accedere a una pretesa visione pre-categoriale da riferire a un essere grezzo, quasi pre-umano (non c’è umano senza tecnica, cioè senza saper fare “ad arte”), in cui l’occhio non sia inteso come una macchina di visione di uno spazio assoluto davanti a sé ma come un’apertura del mondo su di sé, ed è curioso che lo si faccia producendo immagini, figure, cioè segni, cioè macchine semantiche. Il sogno di catturare non tanto “le cose” (l’ingenuità, contro cui siamo ormai preparati, di chi pensa di averle davvero di fronte e di stare nella posizione di Dio che vede tutto), ma “il loro entrare in scena”, il mormorio quasi muto del loro essere sorgivo che è nel contempo il nostro e del segno che ce le consegna circondando tutto, è uno degli incantesimi e paradossi della fotocamera e delle sue immagini d’ombra che non smette di farci transitare lungo il bordo della caverna in cui ci illudiamo di essere, per sorprendere la nascita di un mondo che, in verità, da sempre ci attraversa da parte a parte nell’aperto in cui siamo e senza il quale nemmeno potremmo vedere.

(Foto di Bernd e Hilla Becher, Thomas Struth, Marina Ballo Charmet, Antoine d’Agata, Giulia Flavia Baczynski, Thomas Ruff, Kensuke Koike, Franco Vaccari, Stephen Gill, John Baldessari, Sophie Calle, Duane Michals, Joan Fontcuberta, Jean Baudrillard)


Menti, testi, immagini


«Io traccio il mio bersaglio / intorno all’oggetto colpito, / io non colgo nel segno ma segno / ciò che colgo, baro, / scelgo il mio centro dopo il tiro / e come con un’arma difettosa / di cui conosco ormai / lo scarto, adesso / miro alla mira»
Valerio Magrelli


Prima scena: il pittore ha in mente, più o meno formata, un’immagine finale, prende la tela, il pennello e i colori e la dipinge, utilizzando sapientemente le proprie capacità affinate nel tempo attraverso apprendimento ed esperienza.

Seconda scena: mi metto al computer e scrivo un testo, così che l’A.I. (nello specifico l’A.I. chiamata Midjourney) attivi i suoi algoritmi da qualcuno sapientemente programmati e trasformi quel testo in un’immagine, che più o meno soddisfi la mia richiesta.

Sembrerebbe che in un caso si abbia a che fare con immagini e strumenti, nell’altro con testi e macchine. La prima scena sembra piuttosto muta o afasica, ciarliera - anche se di quella chiacchiera “mentale” tipica dello scrivere e leggere - la seconda. È proprio così?
A me pare che si separino un po’ troppo “linguaggio verbale” e “capacità di produrre figure”, come se fossero due entità distinte.

In realtà il pittore non ha affatto “in mente” il risultato finale in quanto immagine: in mente dove? C’è un luogo della mente che funziona come un cinema, o un archivio di videocassette in cui hanno sede “immagini”, come realtà a sé stanti? Se non ci accorgiamo che questa è un’assurdità (con una sua ben precisa storia che dura tuttora), è solo perché ne siamo assuefatti. Piuttosto egli ha assorbito attraverso un’infinita catena di pratiche di vita e culturali (cioè linguistiche), e attraverso il suo corrispondere a segni che a loro volta sono figure di risposta, un’enormità di saperi generici e specifici che ora circondano e intessono quella specifica “immagine” che egli vuole tracciare. Immagine che, a sua volta, non è una pura e muta emanazione aerea del mondo riflessa nella mente dagli occhi (“mondo”, “mente” e “occhi” i quali, va detto, sono a loro volta “parole” che stanno connesse dentro “teorie” - teorie che, come dice la parola greca, sono “visioni”: non c’è “mondo” senza la sua figura, cioè senza pratiche radicate nel corpo vivente che lo distanziano da sé e che solo alla fine, piegate su di sé, diventano parola e figura), ma è appunto, l’immagine che sta dipingendo, un abito pratico di risposta che presuppone sterminate catene di interpretazione di segni concretizzate, ad esempio, nella pratica storicamente collocata del “fare arte”.

L’immagine che starebbe nella mente è una pura fantasia (che se vogliamo possiamo far risalire a Platone* e alla sua “invenzione della mente”) e semmai procede come retroazione del prodotto (il segno tracciato, da figura a scrittura) sul produttore, che così, grazie alla retroazione dei segni che egli ha prodotto che separano sapere ed essere creando l’uomo come “l’essere che riflettendo sa”, fantastica di essere una pura mente che contiene immagini “visive” (o scarichi neuronali, se vogliamo essere moderni), non rendendosi conto che sta giocando con le proprie stesse metafore, con i propri specchi, facendosene ingannare.

Il pittore non ha quindi solo a che fare con pennello o colore: è a tutta la sua cultura che sta co-rispondendo. E quindi il rapporto con i testi è sì costitutivo della costruzione dell’immagine attraverso l’intelligenza artificiale, ma in qualche modo lo era anche nella pratica pittorica. In Midjourney la faccenda è ora resa esplicita: serve un testo scritto per produrre un’immagine. Del resto lo strumento esosomatico è sempre una funzione del corpo fisico astratta ed estrapolata e come tale il suo uso deve sempre essere “esplicito” perché deve essere riprodotta e programmabile, che sia un bastone che riproduce e prolunga braccio/mano o l’A.I. che riproduce e prolunga la “cultura come automa”, come “macchina linguistica autonoma” specifica della specie Sapiens o in questo caso il produrre figure come sua parte. (È nella sua retroazione che lo strumento esosomatico produce il suo stesso produttore, come detto. Così nel’800, epoca di macchine a vapore, si immaginava che l’uomo fosse un complicato meccanismo di leve e rotori e oggi, epoca di informazione e statistica, lo si crede un complesso algoritmo).

Quindi non esiste da nessuna parte un’immagine che sia immagine e basta, non esistono immagini pure o mute, innocenti o trasparenti: ogni immagine contiene sempre testi impliciti generativi, che stanno nelle intenzioni consapevoli o inconsapevoli di chi la produce, per quanto vaghe o interconnesse esse siano con la generalità della macchina del linguaggio e della cultura in cui egli opera, e può produrre a sua volta infiniti testi interpretativi, che infiniti osservatori possono attivare quando proiettano il proprio “corpo virtuale” nell’immagine abitandola. E d’altro canto non esiste testo che non sia pieno di immagini: il linguaggio verbale è un tessuto di usi figurati, contiene la trama dei loro spostamenti, delle metafore, l’uso di “figure in forma di segni”. Linguaggio verbale e immagini sono gemelli siamesi, parte di un’unica capacità di fare segno e figura.

Resta una domanda: come l’A.I. modificherà la nostra relazione con il “mondo”? Questo è proprio ciò che non si può “vedere”, perché essa è semmai la forma del nostro vedere (cioè interpretare avendo interpretato) per come essa si va allestendo. Per vedere il vedere dovremmo esserne separati, estrarci fuori dalle sabbie mobili tirandoci per i capelli come il barone di Münchausen. Il che non si può proprio fare, essendone come già detto sopra assuefatti. Ogni produttore di specchi è artefice del proprio inganno.


*Platone che è, guarda caso, è anche l’autore della teoria secondo cui il poeta (oggi diremmo l’artista) crea da posseduto e il suo non è vero sapere perché propriamente non “sa” nulla, non ha alcuna chiara “visione con la mente” di cui poter parlare - teoria che solo ribaltata diventa, nel moderno, “l’artista genio”.


Image prompt

Una delle cose secondo me interessanti che emerge da Midjourney - app per la produzione di immagini attraverso A.I. - è quanto il rapporto con i testi sia costitutivo della costruzione dell’immagine attraverso l’intelligenza artificiale. Nel programma in questione la faccenda è esplicita, serve un testo scritto per produrre un’immagine: del resto lo strumento esosomatico è sempre una funzione del corpo fisico astratta ed estrapolata e come tale il suo uso è sempre “esplicito” perché deve essere riprodotta e programmabile, che sia un bastone che riproduce e prolunga braccio/mano o l’A.I. che riproduce e prolunga la cultura come automa, come “macchina linguistica autonoma” specifica della specie Sapiens. Ma sappiamo d’altro canto che non esiste un’immagine che sia immagine e basta, non esistono immagini pure o mute, innocenti o trasparenti: ogni immagine contiene sempre dei testi impliciti generativi, che stanno nelle intenzioni consapevoli o inconsapevoli di chi la produce, per quanto vaghe o interconnesse esse siano con la generalità della macchina del linguaggio e della cultura in cui egli opera, e può produrre a sua volta infiniti testi interpretativi, che infiniti osservatori possono attivare quando proiettano il proprio “corpo virtuale” nell’immagine abitandola, il che non vuol dire che qualsivoglia testo vada bene, perché gli elementi dell’immagine costituiscono comunque un vincolo. E d’altro canto non esiste testo che non sia pieno di immagini: il linguaggio verbale è un tessuto di usi figurati, contiene la trama dei loro spostamenti, delle metafore, l’uso di “figure in forma di segni”. Linguaggio verbale e immagini sono gemelli siamesi, parte di un’unica capacità di fare segno e figura.


((mmagine tratta da ”One shot”, 2107 - in progress)


l’invisibile che abbiamo davanti

Siamo abituati a considerare le fotografie come spazi visivi che rappresentano in modo pedissequo qualcosa che è accaduto, che “era là”. Il digitale non ha cambiato molto questa consuetudine, anzi l’uso più diffuso delle fotografie le configura come isole di testimonianza nel flusso magmatico della relazione mediata dalla rete.

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Ammettiamo un sovrappiù di “creatività” limitatamente alle fotografie che hanno qualche ambizione di diventare oggetti di contemplazione estetica, quelle il cui soggetto - in genere la natura - è particolarmente “bello” o può sembrare ancora più bello grazie a una qualche abilità tecnica del fotografo. In questo caso diciamo che la foto ci colpisce e ci emoziona.

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L’abilità del fotografo in questi casi non è mostrarci l’inconsueto: in quanto tale, l’inconsueto non viene riconosciuto e raramente ci colpisce, o lo fa solo dopo che è diventato di moda e in seguito, dopo gran tempo, a sua volta consueto, riconosciuto da un vasto pubblico che ama tuttavia sentirsi selezionato per il proprio gusto esclusivo. L’abilità del fotografo è semmai quella di renderci lo spettacolo della natura e dell’uomo in qualche modo familiare, ad esempio riprendendolo come facevano certi pittori di qualche secolo fa, o sorprendendoci con i colori delle pubblicità di oggi, usando magari certe composizioni, certi ritmi di sicuro effetto, certe alternanze di pieni e vuoti che notoriamente seducono lo sguardo o stimolando una blanda sorpresa, quel surreale da passeggio che stimola senza mai turbare. Ciò che ci è familiare è in sostanza un cliché visivo e per questo lo riconosciamo. E, come il cane di Pavlov, ciò che riconosciamo ci fa salivare. Noi chiamiamo “emozione” o “essere colpiti” questo riconoscimento inatteso di ciò che già sapevamo.

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La teoria non esplicita ma dominante su cui ci basiamo è insomma che la fotografia sia un oggetto visivo docile a nostra disposizione, consistente in un velo assorbente da deporre sopra le “cose” che, trasparente e traspirante, come sindone ce ne mostrerà l’aspetto quando dalle cose lo solleveremo portandolo con noi.

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(Coerentemente, sappiamo che il velo non coincide con le cose, anche se a volte lo scordiamo - rispondiamo infatti “è un tramonto” quando dovremmo dire “è una foto di un tramonto”, con effetti a volte piuttosto comici.)

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Questa idea della “fotografia come oggetto” visivo ci porta tuttavia, a volte, a desiderare di poter sollevare definitivamente quel velo, a svelare le cose stesse per poterne fare finalmente autentica esperienza. Da dove sorge questa iconofobia? A volte dal confondere la nostra frustrazione per non saper produrre buone immagini con una loro carenza strutturale, ma più spesso da una forma di fatica: il possesso dell’immagine delle cose che quella teoria ci promette, col tempo ci snerva.

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È proprio nell’aspirazione a togliere il velo, e in quel che ne consegue, che  il castello di carte crolla e scopriamo qualcosa di inaspettato: non c’è alcun velo e non c’è alcuna “cosa” dietro il velo, anzi tutta quella idea della fotografia è un’illusione. Cioè: non sono le immagini ad averci prima illuso e poi snervato con la loro ubiqua ma menzognera presenza che nasconderebbe le cose fingendo di mostrarle, non è questo che ci spinge a desiderare di strapparle per “andare dietro l’immagine”: è anzi proprio la teoria - da theorein: vedere - secondo cui le immagini sarebbero un velo sopra le cose ad averci ipnotizzato fino a farci vedere letteralmente i fantasmi, cose che non esistono e di conseguenza a volerle eliminare. L’idea di “cose reali” che stanno lì di fronte (e il senso di perdita e mancanza che provocano in noi) è modellata per differenza sull’idea di immagine come velo e superficie visiva (a sua volta pallido ricordo di una precedente teoria circa il “visibile ideale e assoluto” di cui le “cose stesse” sarebbero simulacri), e non il contrario come quella teoria ci fa credere. Lo strumento modella l’idea di reale a propria immagine per poi retrodatarlo come propria origine.

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Una grande quantità di mirabili ricerche concettuali e artistiche trarrebbero grande giovamento (o finirebbero nella spazzatura) se la si piantasse di usare “immagine” e “realtà” come enti a se stanti.

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L’invisibile non sta dietro, non è segreto e inaccessibile: è davanti - e anche intorno, a fianco, dentro, attraverso. Rivelarlo vuol dire infatti “mettere di nuovo il velo”: le cose si rivelano solo quando sono coperte. Togli il velo e non trovi niente, o meglio trovi un altro velo: intenzioni, volontà, apparati, dispositivi.

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Ciò che troveresti sollevando del tutto il velo è una distanza per sua natura incolmabile, quindi inattraversabile, tra il raddoppio e il suo medesimo, sorgente stessa di tutte le tracce e segni e strumenti dell’umano come “colui che si distanzia da sé attraverso le proprie figure e strumenti e così si riconosce e porta con sé”. Questa distanza, questo invisibile siamo noi, ovviamente: non è un ineffabile e sintomatico mistero, semmai è il bordo continuamente frequentato di tutto il visibile e dicibile. Questa frequentazione si costituisce come riconoscimento: non è mai coincidenza ma sempre spostamento, provenienza e destinazione interminabile e sua e-mozione.

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Le fotografie allora non sono quello che pensiamo, non sono rettangoli visivi che contengono la memoria dell’aspetto di qualcosa che possiamo limitarci a guardare. Non esiste da nessuna parte una cosa come “limitarsi a guardare”, non esistono immagini come neutrali “oggetti della visione” che si depositerebbero dentro di noi imprimendo la loro forma su un supporto esterno e poi nella memoria, la quale non è una intonsa tavola di cera pronta a venir segnata da “immagini”, le quali a loro volta non sono affatto ovvie configurazioni visive che restano non si sa come a galleggiare nel cervello. Nessuno ha “immagini” dentro li cervello, non c’è alcun cinema o teatro che le proietta nella nostra testa e i neuroni non sono spettatori paganti.

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Le fotografie non sono superfici visive, non sono oggetti visivi: sono superfici d’azione. Sia perché agiscono, sia perché ci fanno agire. Il loro aspetto visivo non è mai separato da una natura prepotentemente attiva. In esse converge un visibile, un dicibile e un fattibile. Sono un campo di proiezioni che generano ulteriori proiezioni in chi guarda, in parte prevedibili e in parte imprevedibili. Sono uno spazio di sintesi sociale, che presuppone un mondo e dispone a riprodurlo operativamente, uno spazio di lavoro che mette al lavoro chi osserva. Non esiste alcuna mera “superficie di visione”: guardare è sempre anche operare: guardare è continuare a guardare, sondare, percorrere, perlustrare, venire attratti, scivolare e resistere, rimbalzare. L’azione del fotografo non consiste quindi nel mettere in piedi un apparato di cattura e dominio dell’oggetto in quanto già visto da esibire come reliquia in un religioso silenzio generale, o nel fare da megafono di un detto per quanto inconsapevole, e nemmeno nel proporsi come padrone assoluto delle proprie buone intenzioni. Il suo lavoro consiste piuttosto nell’aprire la presunta univocità del visibile, del dicibile e del fattibile innescando in essa spostamenti chiaramente registrabili.

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Ciò significa che usare la fotografia ai fini di una cattura estetica, con tutti i problemi che ne
seguono compreso il terminale desiderio di rinunciarvi a favore di altri apparati estetici più tridimensionali o del già citato “ritorno alle cose che starebbero dietro ai simulacri stante il carattere illusorio e truffaldino delle superfici visive”, è per lo più frutto di un equivoco partorito dalla falsa idea che esista la cosa “superficie visiva”.

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Tutti noi, nell’esperienza effettiva, usiamo le fotografie come superfici d’azione, ad esempio in quanto messaggi, spazi di comunicazione complessi e raffinati attraverso cui veicoliamo intenzioni e contenuti: ad esempio nel “sono qui e te lo mostro” che c’è in ogni foto di vacanza che condividiamo sui social, è contenuto anche un “sono un persona interessante e di buon gusto, lo puoi vedere dalle cose interessanti che ti mostro di me e delle mie avvincenti giornate”; il che può essere declinato nei mille modi del “sono brillante e spiritoso”, “sono sensibile”, “sono avventuroso”, “io sì che sono una persona vera”, ma può anche contenere messaggi più diretti come “vorrei che fossi qui” o il più sincero “mi diverto molto, meno male che non ci sei”. Mostriamo un lato selezionato del nostro mondo che sta in piedi grazie all’intelaiatura di cliché visivi che utilizziamo in automatico (la nozione di bello che ci hanno insegnato e di cui non siamo consapevoli).

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Ma come facciamo a usarle in questo modo? Accade perché tutti noi “abitiamo le immagini”, lo sappiamo fare tanto da aver dimenticato di farlo, tanto da credere che “stiamo solo guardando”. Guardare è molto più che guardare. La singola fotografia, composta com’è di vuoti e di pieni, di linee di tensione e di scarico, di toni cromatici che articolano “soggetti” o presunti tali variamente disposti entro il suo perimetro, viene percorsa non tanto “con lo sguardo” come si dice superficialmente, ma da tutto il nostro corpo virtuale che finisce per abitarla, anche per un breve momento: la foto è abitata cioè percorsa con azioni immaginarie che a loro volta sono installate sopra universi di precomprensione culturale ed emotiva, singolare e collettiva, che si compone di riverberi del passato e di anticipazioni del futuro (anzi a rigore fa sorgere le stesse nozioni di passato e futuro, che sono un suo costrutto). Questo processo proiettivo è il principio stesso della comprensione delle immagini, ciò per cui diversamente da altri animali noi produciamo e interpretiamo dei segni come segni, cioè “quasi” come gli assenti di cui sono segni. Non esiste in ogni caso “comprensione immediata” dei segni, ogni comprensione è una tra-duzione interpretante, cioè un portare e condurre sé in un viaggio attraverso un Altro che viene com-misurato in qualche modo a sé. E anche le fotografie che guardiamo, sui giornali o in rete, non sono solo superfici visive neutre, sono luoghi di attivazione della nostra immaginazione e dell’inconscio: veicolano pensieri, convenzioni, ideali, informazioni più o meno veritiere, stimolano ricordi, emozioni, pulsioni inconsapevoli, reazioni automatiche di preferenza o di repulsione che vanno a pescare in contenuti spesso molto profondi e antichi, del singolo o addirittura della specie… Guardando quelle immagini creiamo mondi, non stabiliti una volta per tutte ma continuamente contrattati, in cui l’immagine, l’autore, il fruitore e il contesto si scambiano continuamente i ruoli. Le fotografie insomma possono essere finestre per vedere, tracce di impressioni fotoniche raccolte da specifici punti di vista, specchi in cui riconoscere cosa sappiamo di noi, cosa ignoriamo, cosa vorremmo mostrare e cosa nascondere, di cosa siamo del tutto inconsapevoli e che tuttavia ci guida, nel bene e nel male. Sono macchine, cioè segni, cioè


(testo interrotto nell’originale)



Vedere il vedere (il vedere)


Immagine tratta da “Istruzioni per essere come dio”


«Ogni visione del mondo è un’allucinazione linguistica, da cui non si può evadere se non contemplando l’occhiale che genera la visione. Questa contemplazione dell’occhiale linguaggio è l’ispirazione p(r)o(f)etica». Luca Nobile

Vorrei provare qui a discutere questa affermazione del mio amico Luca.
Forse evadere è un po’ ambiguo. Evadere verso dove? Evadere presuppone una gabbia e un mondo fuori dalla gabbia, ma come può essere un mondo senza essere “mondo”? E se le parole non stanno da sole ma sono l’anello di una catena di sterminate pratiche con cui gli animali “hanno il mondo nei loro costitutivi rimbalzi”, anello certo specifico ma non separato, dobbiamo per forza considerare tutta quella catena e i suoi anelli come l’immagine di una prigionia? Se quelle sono allucinazioni, vuol dire che c’è una “vera visione” da cui per differenza giudichiamo il loro carattere allucinatorio, o un luogo neutrale in cui paragonare tutte le allucinazioni e giudicarle tali: che lingua parla quel luogo, se non ci sono lingue che non siano allucinazioni? Come si può dare un vedere senza vedere, cioè senza occhi, i quali non possono che vedere qui e ora e in modo parziale e ambiguo? L’ipotesi ovvia, di un vedere/sapere/dire ab-soluto (originariamente divino e “dell’anima”), cioè depurato dalle ambiguità del linguaggio “naturale”, non è semmai la retroazione di un modo di considerare il linguaggio stesso come mero strumento al servizio della volontà di dire/possedere, che per scarto da sé poi immagina un uso “antico”, “non strumentale”, metaforico, estetico, ludico come zona franca, parco giochi, nostalgia o più sinceramente relitto per oziosi? Linguaggio “poetico” e linguaggio “scientifico” (l’idea stessa della loro natura) sarebbero allora semmai gemelli siamesi di uno stesso desiderio di accesso alle cose stesse “senza il linguaggio”, dove esso non è che una scala da buttare quando ci siamo arrampicati su. Ma se ribaltiamo questa idea pensando che non c’è uso che non sia metaforico, non dovremmo per coerenza ammettere che il senso stesso di “metaforico” cambia al punto da diventare inservibile (con tutte le conseguenze del caso), perché è il “proprio” a essere naufragato? E del resto da dove avremmo estratto l’idea di un “proprio”, un “non allucinatorio”, se tutto è metafora? Non è semmai l’inverso ciò che è storicamente accaduto?

Se non c’è un dove verso cui evadere, né è desiderabile trovarlo, allora è il carattere sorgivo del darsi del mondo come linguaggio “e viceversa” che può essere scorto quando il linguaggio si piega su di sé. Non è un luogo, è una condizione limite, una fessura cioè un nulla vuoto di quello stesso stare.

“Evadere” dà insomma l’idea che l’uso dello strumento (parola/immagine) che ha di mira la mira stessa*, ossia che tematizza in modo non strumentale il suo esser strumento, che parla di sé parlando d’altro (e viceversa), ripiegandosi su di sé per fare di sé il mondo di cui parla mostrandolo in palmo di mano, possa far accedere a un luogo che sta al di là della parola/immagine, a un mondo indicibile, un pre-mondo, alle cose stesse, che viceversa sono appunto due parole (cose stesse) che non c’erano prima di essere dette, e sono particolarmente vuote e inospitali, desolate e prive di vita. La bellezza e il piacere fisico di quel modo di usare il linguaggio è invece proprio percepire “in figura” (cioè al quadrato, in modo riflessivo) il venir al mondo figurale (cioè limitato e parziale) del mondo. Non c’è “mondo” senza la sua figura cioè senza pratiche infinitamente radicate nel corpo vivente che lo distanziano da sé e che solo alla fine, piegate su di sé, diventano parola e figura. “Possiamo parlare e vedere perché siamo fatti della stessa sostanza del mondo” (Merleau-Ponty) di cui parliamo e che vediamo, che in noi - e prima di noi nell’animale - si piega su di sé e si distanza in sé - con la nostra specifica distanza che è linguistico/figurale. Vedere non è una questione ottica: non c’è vedere senza immaginare, immaginare senza pensare, pensare senza parlare. E a ritroso, e tutto il resto.

Vedere questa distanza, vedere il vedere, non ci porta altrove ma ci fornisce la percezione della nostra genesi e della sua costitutiva presenza nella distanza, nella perfezione dell’essere parte.

Ciò cui si ha accesso in quel modo è cioè il senso del provenire, e ciò da cui “si” proviene cade nel nulla, cioè ac-cade, cioè non c’è “mai stato” in altro modo che così come accade ora (quando “in figura” lo “vediamo”). La mancanza che ci costituisce non è allora il non poter attingere a un presunto strato di stessità e coincidenza che ci sarebbe negato dall’essere calati nel nostro mondo/linguaggio fatto di separazioni, che come gabbia o schermo ce ne impedirebbe il godimento e da cui però per colpo d’abilità possiamo scantonare vedendolo di lato come chi esca dal cosmo sporgendo il capo all’indietro per osservarlo: questa nostalgia non è genuina, il suo desiderio è proprio quel possesso nevrotico delle cose stesse, è nostalgia di un fantasma sostitutivo, essa sì allucinatoria. Essere nella mancanza è semmai la modalità del nostro esser nel mondo, il suo darsi come cadere nel nulla della provenienza che non potrebbe mai darsi senza questo cadere: il nulla scaturisce dalla costituzione che si distanza e ci raccoglie assieme nel suo circolo vivente.

Luca Nobile è professore di Linguistica teorica presso l’Università della Borgogna.

* «Io traccio il mio bersaglio / intorno all’oggetto colpito, / io non colgo nel segno ma segno / ciò che colgo, baro, / scelgo il mio centro dopo il tiro / e come con un’arma difettosa / di cui conosco ormai / lo scarto, adesso / miro alla mira», Valerio Magrelli, da “Rosebud”).


Traversata

uno
Dalla finestra una luce soffiata lascia una macchia gialla, il confine naturale che divide in due l’enclave del gomito dal resto del braccio. L’ombra manderà gli ambasciatori, reclamerà il polso irredento. Posate le bucce di mela rosse avvizziscono sul tovagliolo, il ferro sgomita nelle molecole, si lega all’aria, precipita prosciugandosi nel letto di cellulosa. Vedi, anche la scrivania si apparecchia da sola, una tela improvvisata raccoglie nature morte, il ricciolo ripiegato che scava anfratti nel foglio e fruttifica; l’artigiano moltiplica gesti a caso e prima o poi nella vertiginosa percentuale costruirà l’oggetto esatto, insieme a infiniti mostri.

due
L’inizio è così dimesso che avviene in segreto, anzi è quasi un pensiero a ritroso riconosciuto più tardi. Forse l’abbiamo inventato per nostalgia. L’inizio non è nulla, è il tuo corpo o una sua piega che si avvolge in una spira di muco intorno a un frammento caduto dalla coda, un automatismo interno come il battito del cuore che non decidi, nel frastuono della folla il moto del respiro che non tace. Questo è lo spazio vuoto, la fessura di nulla. Prende l’acqua leggero, l’increspatura d’onda sfiorata dalla mano. Salpa così, in un punto smemorato e lontanissimo, avvolto nella nebbia chiara, mai più esistito.

tre
Come si articola un alfabeto d’acqua, la distesa di memoria da solcare nel viaggio delle mucose al loro approdo, il riepilogo che ogni volta rifà a spirale l’orizzonte. Mi restituisci come nel suo doppio la conchiglia, specchio liquido in perigliosa traversata verso di te. Computi già nella scansione delle ossa minuziose, impilate. Caprioli sul fondo di quell’oceano sterminato.

quattro
Io che ho sempre odiato le storie mi appresto a coniugare tutti i tempi, a tessere il racconto delle dita sul bordo della coperta, il muso del cane alato che ancora esplorerà la ceramica. Dopo che ho compitato la tabella dei significanti lasciando che goccia su goccia si formasse il sottile velo di calcare, il lascito d’acqua nell’endoscheletro, il legno maestro che regge l’intravatura della fiancata e bordeggia ora al largo, nel sogno salmastro che si coagula, giovane forziere nel ventre della nave dorata.

cinque
Nessuna mappa o bussola per costeggiare il profilo di questo continente di carne, nessun compasso per tracciare rotte intorno a mostri marini, cavalcati dorsi di balene, creature che germinano come il fiore delle muffe dalla superficie della carta dove si sofferma il dito smemorato, o isole di leggenda. Eppure le ascisse e le ordinate sono decise fin nella minuzia del numero esatto, arrotolato il codice delle forme e dei colori e il suo dipanato progredire e mutare al millimetro, già al lavoro lo sciabordio dei remi che mulinellano il liquido e addensano strati su strati, cieli su cieli, la curva dello sguardo che all’infinito ripeterà questo lento veleggiare in tondo.

sei
Nessuno mai entrerà nelle secche perché non hanno termine né inizio: da lì puoi solo tornare. La superficie delle acque immobili svapora in bave lucenti, la mente affonda nel limo e si distilla; coaguli di immagini e sirene, viluppi d’aria densa che avvampa in spire accecate, veleni. Il miraggio svela il segreto, mostra lo specchio tortuoso delle ascendenze e delle discendenze. In trasparenza i volti si sovrappongono, i profili e le carni. Rischia di perdermi la visione di ciò che non saprai, che io non ho saputo; il tuo passo innocente e crudele, il mio che ha già calpestato. Mio padre mi raggiunge finalmente alle spalle. Tu sei al largo in acque profonde, senza nome.

2006


Di cosa parlano le immagini?

Testocronaca non del tutto fedele della presentazione online del libretto “Sono sempre stato qui” avvenuta mercoledì 9 dicembre 2020 avvenuta durante l’evento “20 libri nel “2020” organizzata da Chippendale Studio.

Sono sempre stato qui e ho molti modi per fartelo credere” è un libretto di fotografia contemporanea, è rettangolare (l’oratore tiene in mano il libretto e lo mostra alla telecamera), ha una quarantina di pagine e al suo interno compare una sola fotografia, ripetuta e accompagnata ogni volta da un testo diverso: è quindi un libro di fotografia che ad ogni pagina prova a rispondere alla domanda: sì, ok, ma che cosa sto guardando?
Perché ho prodotto questo libro? L’ho prodotto per venire incontro alla pressante domanda del pubblico medio, domanda che sorge spontanea quando questo pubblico guarda libri di fotografia contemporanea. Voi avete senz’altro presente il pubblico medio che tutti noi a volte siamo, io quasi sempre: prende in mano un libro di fotografia contemporanea, tipo il mio, lo sfoglia, lo risfoglia compulsivamente, non ci capisce niente, lo gira lo rigira e alla fine disperato AH! (l’oratore si gira di scatto e con un urlo scaglia violentemente a terra il libretto, poi si volta e con calma ne prende un altro dalla scrivania) lo scaglia per terra, talvolta ferendo in modo superficiale persone che si trovano sulla traiettoria. E ogni volta mentre lo scaglia lo sentiamo formulare la domanda: ma insomma cosa sto guardando, di che cosa parla?

Ecco, di che cosa parla, di che cosa parlano le immagini? Ma soprattutto: le immagini parlano?

Noi siamo abbastanza abituati a pensare di no, le immagini non parlano altrimenti non sarebbero immagini: le immagini sono immagini, i testi sono testi, sono cose separate e anzi devono restare ben separate, di qui ci sono le immagini che vediamo e riconosciamo con gli occhi, e di là ci sono i testi, e i testi stanno a lato, e possono funzionare semmai come commento sempre imperfetto e inesauribile, si dice.

Salvo scoprire che in realtà senza il titolo, la didascalia, il commento, il testo di spiega, senza il “sai, vuol dire così e cosa”, senza il foglio di sala, il testo critico, magari l’intervista, cioè senza un apparato di apprendimento e un apparato di fruizione, istruzioni per l’uso che si riferiscono a pratiche sociali entro cui viene prodotta, qualsiasi immagine d’arte contemporanea (ma io direi tout court qualsiasi immagine), è opaca, chiusa, quasi illeggibile, se non per il suo valore estetico o decorativo (che è purtroppo l’antitesi dell’arte contemporanea, si dice).

A mio parere il rapporto tra immagini e linguaggio verbale, e quindi la domanda su cosa sono le immagini e su “cosa sto guardando?” diventa interessante quando noi proviamo a sospendere alcune di queste nozioni che pensiamo di sapere.

Noi pensiamo che riconoscere “un’immagine come immagine”, sia una cosa ovvia perché impulsivamente trattiamo l’immagine come una finestra trasparente, che sta qui, aperta verso il suo referente, che sta o stava là, e quindi basta guardarla: io ti faccio vedere una foto e ti chiedo: che cos’è? Tu rispondi: è un cane, è ovvio, “si vede” che è un cane. Ma “vedere” è proprio una cosa così ovvia?

Non proprio. Intanto perché la macchina non registra “oggetti che stanno là” ma valanghe di saperi concettuali, intenzionali e prospettici incorporati nella macchina, nel fotografo e persino nel “là”. Il puro “essere stato là ” di stati di cose è un effetto di realtà prodotto da protocolli, da saperi, da posizioni e intenzioni che stanno di qua. Proprio niente “sta di fronte”, è quindi niente può essere mostrato come puro oggetto da una foto. L’idea di un “era là” assoluto è una retroazione, un effetto di autenticità operato proprio del rettangolo cartaceo che contiene la foto (come ogni “idea di oggetto” è una retroazione delle nostre pratiche percettive-conoscitive).

Quindi dobbiamo correggere l’affermazione dell’amico: quello che vedi non è un cane ma al massimo un’immagine di un cane, magari una foto di un cane, ma se poi la faccio vedere al mio gatto lui la annusa, ci gira intorno ma di certo non rizza il pelo e non scappa perché non è un cane, non sbava e non c’è nessuna “immagine di cane” per lui, cioè: non c’è nessuna trasparenza, il meccanismo non è ovvio. Perché per noi lo è?

Secondo alcuni perché noi siamo fisiologicamente e culturalmente attrezzati ad abitare le immagini, cioè a proiettarci nell’immagine con tutto il nostro corpo virtuale, sviluppando un rapporto gestuale, percettivo, emotivo e cognitivo con lo spazio dell’immagine che è simile a quello che già viviamo in ogni istante (o è quello che viviamo a essere simile all’altro? L’umanità ha inventato le figure che tracciava sulle caverne, o sono caverne e figure ad aver inventato l’umanità?). Noi abitiamo lo spazio, ne siamo parte e prodotto, siamo “fatti della stessa carne del mondo” e per questo possiamo “vederlo”: «Il mio corpo mobile rientra nel mondo visibile, ne fa parte. Ecco perché posso dirigerlo nel visibile. Le cose e il mio corpo sono fatti della stessa stoffa» (Merleau-Ponty). Siamo fatti della stessa carne del mondo e per questo possiamo farne esperienza cioè creare distanza dal suo interno, cogliendo le linee di forza, i pieni e i vuoti, agendo di sponda, qui sono comodo, là sono in pericolo, mi avvicino, trovo linee di fuga e di equilibrio: è questo attivo comporsi del mio corpo in uno spazio abitato il prototipo di ogni “composizione” delle immagini di cui posso fare esperienza abitandole con lo sguardo (quando si dice che “le linee guidano lo sguardo” si sta dicendo questo).

Quindi, questo significa che col cavolo un’immagine è un’immagine e basta, col cavolo che esistono immagini pure o mute, innocenti o trasparenti: in realtà non esiste immagine che non contenga infiniti testi impliciti, che infiniti osservatori possono attivare quando proiettano il proprio corpo virtuale nell’immagine. E d’altro canto non esiste testo che non sia pieno di immagini: il linguaggio verbale è un tessuto di usi figurati, la trama dei loro spostamenti, delle metafora, uso di “figure in forma di segni”. Quindi testi e immagini forse sono gemelli siamesi, parte di un’unica capacità di fare segno e figura.

Ecco che allora tutta questa traballante montagna teorica cosa produce? Naturalmente produce come si conviene un topolino e questo topolino è appunto il libretto “Sono sempre stato qui”, nel quale una sola immagine, di cui io ignoro l’origine, diventa l’occasione per una fioritura di possibilità che io ho assemblato mettendo insieme ricordi personali, fatti veri, fatti inventati, fantasie e poi mischiando il tutto.


Rorschach dei cessi

Da bambino passavo un sacco di tempo a cercare tra le macchie delle
piastrelle il cane alato e gli altri animali fantastici che le
popolavano. Le nostre non erano come queste: erano nere, lucide e piene
di forme chiare e liquide come ectoplasmi. La pietra vetrificata non
raccontava una storia, non emergeva alcun intreccio a dare un senso al
caos: mostrava solo gli abitanti di un mondo nebuloso in cui la mente si
perdeva; sprofondato in quel fondo cupo l’occhio girava all’infinito
intorno alle stesse figure, come in uno specchio confuso di segreti
indicibili in forma di stele casalinga tra il bagno e la cucina.


Vedere è come abbaiare

Ieri mi è arrivata la riedizione di un classico: “Colazione sull’erba” di Luigi Ghirri, riproposto da Mack (oltre alle foto dell’originale ce ne sono un centinaio dall’archivio).

Naturalmente è bellissimo e non è il caso che stia qui a dire il perché, ci sono saggi ovunque da leggere. È anche molto utile da avere in casa: non dico come un apribottiglie o un aspirapolvere, ma comunque utile perché produce il classico e liberatorio: «Ok tutto questo l’ha già fatto lui 40 anni fa, meglio passare oltre».

In un modo o nell’altro, senza volerlo, Ghirri lo copiamo tutti - uno dei molti Ghirri che si sono succeduti nell’arco di quei pochi anni: il suo è uno stile entrato nell’immaginario collettivo, almeno per noi italiani. Anzi fin troppo, è diventato un cliché, perfettamente instagrammabile, come tutte le cose che erano rivoluzionarie un tempo, ma non troppo tempo fa. Negli anni ‘70 io ero ragazzino e provavo a fotografare nello stile che allora era di moda (meglio non dire come…), Ghirri non lo conosceva nessuno e se allora l’avessi visto l’avrei schifato. Per fortuna poi ho smesso di fotografare per 40 anni e quando ho ricominciato, magicamente fotografavo “come lui” (vabbe’, non proprio, è per capirsi).

L’idea che vediamo o scattiamo “seguendo la nostra ispirazione” è in buona parte una sciocchezza: vediamo al 95% quel che conosciamo già, il restante 5% ci fa paura o schifo o non lo vediamo nemmeno. E per lo più ci piace quello che sta nella nostra comfort zone percettiva, ci “emoziona” quello che ci fa salivare e fare bau come il cane di Pavlov - il vero eroe dei nostri tempi, tra l’altro. Insomma, oggi sarebbe meglio fotografare come sarà di moda tra 40 anni, non com’era rivoluzionario 40 anni fa.
O almeno come è attuale oggi, non pretendiamo tanto.

Ma ecco che così siamo di nuovo fregati: Il faut être absolument moderne è un imperativo che si autosmentisce, come il caso Ghirri e infiniti altri dimostrano: crea una dialettica tra cool e kitsch e tra individuo e massa che si morde la coda, per non parlare dell’elemento disgustoso e coprofilo implicito nell’idea di un’aristocrazia del gusto e nell’isteria dell’autentico e della copia. Come diceva l’esimio: «La gente fa di tutto per distinguersi dagli altri, cioè dalla gente. Ma volersi distinguere dagli altri è ciò che in definitiva accomuna tutti, è insomma ciò che distingue l’esser gente. Quindi più la gente prova a distinguersi dalla gente, più lo diventa». (Giulio Bartolomeo Argano, La persona distinta e l’anonimato come stile di vita, Laterza, Bari, 2026, pag. 2038).

Ma se ora non volessimo più essere assolutamente moderni, vuol dire che lo saremmo ancora di più (siamo passati anche da qui, e Ghirri stesso è tra quelli che ci hanno portati nel postmodernismo per la porta più stretta, quella del doppio, del meta, del labirinto, insomma di Borges). Quindi non se ne esce. Oppure siamo già lontanissimi? Dove siamo, esattamente? Voi lo sapete? Siamo come i due militi che ci guardano da dietro il cane, nella foto qui sotto - o come il tizio a destra che si è imbucato all’ultimo momento sospettando qualcosa: guardiamo fisso e non abbiamo la più pallida idea di cosa ci stia accadendo. L’unico che forse sa qualcosa è il professor Pavlov, che infatti guarda il cane.


La soglia

Il termine “soglia”, nell’antica Roma, indica la pietra piatta posta come piano e su cui si posano gli stipiti e i cardini. È la pietra che sta sul suolo (solum) su cui si passa con la suola del sandalo (solea) per andare sulla via (dal greco soydas, andare per la via - odos). La nostra tradizione descrive questo inoltrarsi nella via come metodo: meta-odos. Nella Cina antica - più o meno nello stesso periodo - la via, il sentiero da imboccare, è detto invece Dao, o Tao. La prima lo intende come linea, la seconda come cerchio. Unite, queste figure creano la lettera greca φ, sintesi statica del greco antico φύσις, physis, da phyo (φύω), “genero”, “cresco”. Physis indica la totalità delle cose che esistono, che nascono, che vivono, che muoiono. In termini dinamici, la sua figura è una spirale infinita (il cerchio proiettato sulla linea). I Latini tradussero questo termine con “natura”: l’insieme delle cose e degli esseri, che deriva dalla radice gna (in greco gen): “generazione”, da cui il verbo latino nasci, “nascere”. La vita delle cose è quindi ciò che passa da una soglia e si inoltra sulla via.

La soglia è quello spazio vuoto, non visibile né rappresentabile se non nella sua cornice, che separa e nello stesso tempo tiene uniti due luoghi, e per estensione due stati, o due condizioni, o due realtà. Si presenta in molti modi differenti, ad esempio: interno ed esterno, ma anche liquido e gassoso, o anche terra e cielo e in modo ancora più astratto preda e predatore, libertà e desiderio, la visione e il ricordo, la mano e il bastone, natura e cultura, gli amanti. Qui si vede che l’essere separati e uniti tipico dell’accadere della soglia, per estensione, si allarga al movimento di reciproco riconoscimento o esclusione. Ma è la nascita, come è facile intuire, il prototipo di tutte le soglie: è qui che accade qualcosa di particolare, che ci fa capire il senso di tutto il movimento. In apparenza venire al mondo significa separarsi, diventare due. Ma cosa c’era prima di questo due? Non la madre, perché è la nascita che decreta il suo divenire madre. Non il figlio, per lo stesso motivo. Né l’unità dei due, che non c’erano e quindi non potevano essere uniti. Madre e figlio come enti separati siamo noi a nominarli, a partire da quella nascita e dal nostro sapere “oggettivo” che proprio a partire dalla struttura di quella nascita, poi infinitamente replicata e piegata su di sé nei nostri modi specifici, possiamo costruire, compreso il sapere della nascita. Ma prima, nell’esperienza reale, i “due” non c’erano affatto, né divisi né uniti e sarebbe scorretto portare indietro la nostra consapevolezza e attribuirla loro. Cosa c’era allora? C’era un divenire che era già sulla via della soglia essendo a sua volta costituito da innumerevoli soglie, divisioni e articolazioni del medesimo, ma che propriamente si presentava come mistero. La nascita è infatti «l’uscita dalla perfetta coincidenza del nulla con se stesso per la distanza: esplosione del “via da ogni dove” e “per ogni dove”» (Sini).

Quindi riepiloghiamo: madre e figlio nascono assieme: la madre non fa nascere il figlio più di quanto il figlio trasformi una donna in madre. Il figlio è nella madre; ma la madre è nel figlio. Nessuno dei “due” esiste prima del rapporto che si apre tra loro nel transito di una soglia che li biforca: ciò che prima non c’era, transita e si separa/unisce, si divide restando tuttavia in qualche modo connesso dal vuoto. Il due viene prima dell’uno: è il rimbalzo e provenire reciproco che li fa nascere. Ognuno dei due, quindi, diventa per l’altro un segno, cioè sta al posto di qualcosa di assente: l’unità che non c’è mai stata e che semmai si presenta dopo la nascita ai due come reciproco nulla della provenienza sempre da decifrare, e quindi come destino infinito. Un segno che delimita un territorio singolare e comune che è perfetto così com’è, e che nello stesso tempo allude, rimanda, è memoria di un fondamento che non è mai stato: è il proprio nulla.

Ecco perché, oltre la soglia della nascita e per sempre, questo trascorrere gli uni negli altri, mai fissato una volta per tutte, è lo spazio della continua contrattazione, della decifrazione e del mistero, del catturare e del fuggire di nuovo, dell’enigma e del conflitto. E ovviamente della morte, che sta fin dall’inizio come rovescio della soglia. È solo grazie all’infinito inseguirsi e ripiegarsi nelle figure sempre diverse dell’altro, nell’altalena dell’andare e ritornare, girare in cerchio e spostarsi di un poco al ritmo della rima e del ritornello (cioè delle parole che ri-tornano e ripetendo creano, nel due, la memoria dell’uno che non c’era), che si compone la filastrocca che canta per noi, e noi in lei, la «straziante meravigliosa bellezza del creato». In questa ninna nanna ogni cosa si sposta creando il movimento continuo, il divenire delle cose.


Noi e l’automa (cioè: noi)

In un articolo precedente avevo proposto una riflessione sui conturbanti ritratti fotografici generati dall’Intelligenza Artificiale e su un particolare software chiamato StyleGAN, il cui principio è quello di allenare due macchine a lavorare in modo competitivo, ad esempio: uno cerca di simulare un volto fotografico in base a determinate istruzioni - algoritmi- che gli sono state fornite, l’altro cerca di capire se è il volto è “veramente” fotografico o è solo simulato. Alle due macchine sono fornite le istruzioni per imparare dagli errori, così che la simulazione diventa sempre migliore. Nell’articolo mi ero soffermato sull’impatto emotivo, straniante e per certi versi sconvolgente, che la visioni di questi ritratti puo provocare. E in generale sul tema dell’automa e della tecnica e sui luoghi comuni con cui viene affrontato. Per tutte queste questioni e anche per quelle che affronto qui sotto (tranne gli errori e le scemenze, che sono opera mia), non posso che rimandare a un testo fondamentale del filosofo Carlo Sini.

In rete si trova già un’ampia letteratura sul tema dei ritratti fotografici simulati e sulle possibile applicazioni e, naturalmente, sui possibili usi scorretti o pericolosi di questa tecnologia, legati alle truffe, all’adescamento online, al deepfake, ai falsi profili social, ai falsi CV e referenze e così via. Tutte queste possibilità di uso scorretto si basano in generale sul pregiudizio di veridicità che attribuiamo alla fotografia, a causa della sua origine analogica: registrazione di un riflesso della luce su un referente che “era lì”. È un dibattito (già affrontato nell’altro articolo), che risale all’avvento del digitale il quale ha mutato in parte i termini della  questione - col digitale può non esserci il referente - ma non del tutto perché più potenti si rivelano la consuetudine e l’uso effettivo medio-vernacolare della fotografia. Da qui la credulità e i rischi di truffa. Due libri utili sul tema sono L’immagine condivisa di André Gunthert e Un’autentica bugia di Michele Smargiassi.

Interessanti sono anche gli utilizzi non fraudolenti (tutto sommato si può fare un uso fraudolento di qualsiasi cosa, è noto) perché coinvolgono ciò che diamo per scontato sia “esclusivamente umano” e invece può essere simulato. Un po’ come diamo per scontato che ci sia un referente, e invece… Allo stesso modo diamo per scontato che solo l’umano impari, o legga. Invece pare di no, anche la macchina può farlo. Quindi il confine di ciò che è umano va spostato? Pensiamoci un attimo: stiamo dicendo che una macchina, il computer, può imitare un’altra macchina, la fotocamera. Vista così non è cosi sconvolgente, no? Se lo è, quindi, è per un altro motivo.

Se ci spostiamo alle applicazioni dell’AI nel campo della scrittura di testi infatti le cose sembrano diverse. Dalla lettura di questo sito ad esempio si apprendono cose interessanti. La macchina sa rispondere e scrivere testi che difficilmente possono (o potranno in futuro) essere sgamati come “non umani”. Con tutti i problemi e le opportunità - entrambi colossali - che questo potrà produrre. Tuttavia credo che occorra, prima di correre ai ripari o approvare con entusiasmo, cercare di capire cosa sta accadendo. E per farlo occorre notare in primo luogo che l’uso che facciamo di termini come apprendimento, lettura, memoria ecc. attribuiti alla macchina è in realtà alquanto metaforico.

Anche nella produzione di testi “automatici”, come nella produzione di foto di volti, abbiamo infatti enormi database di testi che la macchina scorre - ma non legge: non li capisce mica infatti! - con l’istruzione di memorizzare - ma non è una memoria come la nostra che è sinestesica e contestuale: è più simile a segni fatti sul muro per numerare i giorni o le lune, infatti quella è l’origine della matematica, della scrittura alfabetica e della memoria digitale stessa! - con l’istruzione di “memorizzare” ad esempio quale parola segue a un’altra in vari tipi di testi, così da imparare - ma non è apprendimento come il nostro, che presuppone comprensione dei significati: è un conteggio statistico che si basa di nuovo sui numeri, anche se va detto che la presenza di un agone dialettico cioè di una forma di “relazione” lascia pensare che si sia imboccata la strada giusta… - a costruirne di nuovi che un’altra macchina non riesca a sgamare come falsi in base agli stessi criteri con cui lavora la prima (Ricorda i testi automatici scritti dai dadaisti o dai surrealisti vero? Non è proprio un caso, forse, se pensiamo che la macchina sia l’inconscio dell’uomo o che abbia un proprio inconscio, come suggeriva anni fa Franco Vaccari…).

Quindi vuol dire che la comprensione effettiva dei significati non può essere imitata e quindi che è immateriale? Tipo: l’anima?

Niente affatto, perché i significati non sono altro che la prima tecnologia, da cui dipendono le altre, computer compresi. Ma che vanno intesi e anche l’umano che li pro-duce - in modo diverso.

Stiamo insegnando a macchine numeriche - che sono nostre protesi, cioè isolano ed estraggono singole facoltà del corpo “interpretandole” e potenziandole, come fanno il sasso con la mano o il bastone con il braccio - a interpretare numericamente fenomeni complessi come la costruzione di un discorso. Perché è vero che in certi tipi di discorso, statisticamente, a una parola ne segue un’altra più di quanto accada in altri tipi di discorso. Quindi è vero che spesso parliamo come macchine. Di piu: è vero che i discorsi sono macchine! Il linguaggio è infatti la prima protesi tecnica inventata, la prima “macchina” diremmo, se fossimo nell’800: ogni discorso quindi è già una macchina prodotta da una macchina (il linguaggio). Non è cosi bizzarro quindi, come detto sopra a proposito delle foto, che una terza macchina - l’AI - la imiti. Tuttavia la costruzione di un discorso “reale” - ciò che chiamiamo comprensione, che non è un fenomeno immateriale ma un abito di risposta, solo estremamente complesso - presuppone una quantità tale di parametri che la simulazione numerica al momento non può imitare. Faccio un elenco molto elementare: la presenza di una bocca e quindi di un corpo “abitato” - cioè che sa di esserlo, “si sa” - che ha esigenze, bisogni e desideri e nasce e cresce in un contesto di altri corpi da cui apprende a sopravvivere e a parlare immerso in contesti di pratiche comuni sviluppate in tradizioni di interpretazioni di fenomeni naturali che lo contengono e di cui fa parte ma che nel contempo ha imparato a piegare in modi complessi trasformandoli nei contesti di significati suddetti cioè in protesi semantiche e fisiche che continuamente retroagiscono su di lui presentandosi come “reali” e su cui quindi egli opera sviluppando nuove interpretazioni in un circolo infinito…

Ciò che è interessante nell’AI, a parte i suoi meravigliosi usi futuri e a parte i suoi terribili usi futuri, è che come ogni protesi umana, ogni tecnica, ogni strumento, ogni “uso in figura di” cioè ogni segno, retroagisce e modifica il costruttore e lo fa diventare ciò che è - non c’è prima l’umano e poi gli strumenti, sono uno reciprocamente il prodotto dell’altro. E infatti, come ogni tecnica, funziona da specchio della sua stessa natura, cioè delle pratiche produttive di senso di cui l’umano è fatto, consentendoci di vederle per un istante. Solo per un istante, perché tra un attimo questo prodotto retroagirà su di noi e diventerà ciò che per noi è “la normale realtà esterna”, che non potremo più vedere in questo stato nascente, non ci sconvolgerà nemmeno un po’ e useremo in infinite pratiche a venire, meravigliose e terribili.


Esposizioni in tempi virtuali

«[…] Ho esposto una cabina Photomatic (una di quelle cabine per fototessere che si trovano nelle grandi città) ed una scritta in quattro lingue che incitava il visitatore a lasciare una traccia fotografica del proprio passaggio. Io mi sono limitato ad innescare il processo facendo la prima photostrip, il giorno dell’inaugurazione; poi non sono più intervenuto. Alla fine dell’esposizione le strip accumulate erano oltre 6000».
“Esposizione in tempo reale N. 4. Lascia sulle pareti una traccia fotografica del tuo passaggio”, Padiglione Italia della 36° Biennale di Venezia 1972.

Alcuni critici, parlando di Esposizione in tempo reale di Franco Vaccari molti anni dopo, ne hanno sottolineato la capacità profetica rispetto all’avvento della rete e dei social e all’esibizione di sé di massa. L’idea, anche se un po’ compressa dalla cronaca del giorno, è sensata, non nel senso che Vaccari prevedesse i social o Instagram, ma nel senso che la sua opera rappresentava molto bene uno spirito del tempo, gli anni ’70, erede a sua volta di una scia molto lunga: l’idea che la distinzione tra arte e vita, o autore e fruitore (o mente e corpo, o borghesia e proletariato e via discorrendo), dovesse essere superata causa doverosa fine degli steccati, l’idea di accesso libero, la disintermediazione. È la linea principale, modernista, del Novecento, cui peraltro se ne oppose anche una minoritaria e classicista. Non è forse un caso che un’incarnazione di questo stesso spirito, in chiave libertaria e freak, trasportato nella California hippie e tecnologica degli anni ‘70 producesse l’invenzione del personal computer e della rete come tecnologia leggera, alternativa, capace di connettere e di bypassare il Potere Centrale attraverso un micropotere diffuso.

Così nell’opera di Vaccari non c’è un oggetto che il pubblico debba guardare “passivamente” (orrore!): l’opera contenente - di cui Vaccari è autore - è semmai il pubblico stesso che fa funzionare l’opera contenuta nel momento di farla. Volendo vedere meglio, in Esposizione non c’è elogio, presa di posizione pro e nemmeno contro: l’operazione è valida perché è una fedele ancorché metaforica rappresentazione del processo. Sono semmai gli autori/soggetti dell’opera contenuta che gestiscono il loro rapporto con la macchina, chi ridendo, chi stando serio, chi spogliandosi nudo e insomma esercitando tutti i se-dicenti atti liberi che puoi esercitare dentro un set pre-programmato di regole: la fotocamera, il suo illusionismo e le sue leggi ottiche, l’antico marchingegno chiamato camera obscura da cui in parte deriva, la prospettiva rinascimentale che vi è incamerata e l’idea di spazio omogeneo, l’autoritratto meccanico, la cabina/camera oscura in cui nessuno ti vede, il museo in cui accade tutto questo, il contesto di provenienza dell’opera e dei soggetti in cui accade il museo ecc ecc.. Un set che, volendo, potremmo anche chiamare vita. Non è poi molto diverso entrare in un ipermercato e vagare “libero” tra le corsie. Nello specifico, Foucault forse parlerebbe del passaggio dalle società di disciplina alle società di controllo, in cui il potere non si esercita includendo in istituzioni, ma controllando - o auto-controllando - il libero movimento dentro dispositivi mentali e sociali più larghi.

Col senno di poi, noi di quell’utopia iniziamo anche a vedere i rischi: il famoso “la trasmissione la fate voi” di Funari era solo l’antipasto. La disintermediazione e il medium molti-a-molti comporta come conseguenza anche l’uno vale uno, il neo-tribalismo, il ritorno massiccio di elementi mitici dentro la cultura ultra-tecnologica e altre meraviglie. Che poi è tutto da vedere che sia meglio o peggio di quanto c’era prima. È diverso. Ma perché?


Ritratti di persone che non esistono


Cliccate su questi ritratti. Sono stati generati dalla pagina: This Person Does not exist.
Qui se ne spiega il funzionamento.

Potete fare una prova e crearne quanti volete; con un semplice refresh della pagina si genera un volto unico e irripetibile che “vive” fino al prossimo refresh. Si tratta di volti indistinguibili da quelli reali, l’unica differenza è che queste persone non esistono. Il che è piuttosto inquietante: sono ritratti di persone che potremmo aver incontrato al bar o in coda alle poste mezz’ora fa. Li guardiamo e senza volerlo li trattiamo come faremmo se fossero ritratti di persone comuni. E un istante dopo, ricordandoci che sono fatti solo di bit, ci spaventiamo di quel che abbiamo appena pensato e provato.

Questa è la parte facile

Secondo Roland Barthes, l’essenza della fotografia è la produzione di una traccia di qualcosa o qualcuno che “era là”. Una traccia, un riflesso fatto di ombre, letteralmente, più che di luce: dove c’è solo luce non c’è alcuna fotografia, solo un foglio bianco. È tale essenza che spiegherebbe il noto fenomeno per cui guardare una vecchia fotografia, anche di uno sconosciuto, ci può provocare una leggera ferita: immaginiamo per un istante la vita di quella persona che “era là, proprio là, è esistita in quel momento”: pensiamo ai suoi gesti, persino ai suoi pensieri, così simili ai nostri. È una strana perturbazione dolorosa nel sentire che “lì dietro” c’è - c’era! - una vita proprio come la percepiamo dentro di noi: è l’esperienza dell’uscire da sé e del collocarsi a metà, in quella zona indistinta tra io e altro, tra soggetto e oggetto, in cui potremmo essere entrambi.

La fotografia, dice Barthes, rendendo eterno “quel momento”, ne sancisce però anche la sparizione, la morte: ogni fotografia, anche quella scattata due minuti fa, mostra quindi l’assente. E questo scatena l’empatia. Cioè l’amor di sé in forma d’altro. Si tratterebbe qui della capacità della fotografia, agendo come prelievo, di farci percepire l’altro da noi mostrandoci “in figura” la sua presente assenza: la capacità della fotografia di evocare la vita altrui nella forma della sua mancanza.

Ora: come è evidente almeno dall’avvento del digitale, questa capacità può essere simulata. Se guardare un ritratto può evocare pensieri, sensazioni ed emozioni circa la vita di uno sconosciuto che “era là”, cosa accade quando in realtà quello sconosciuto non è mai esistito e quel volto è il prodotto di un algoritmo? L’empatia funziona a vuoto: incredibilmente, possiamo rimpiangere persone mai esistite. Ecco il doppio turbamento nel farle sparire con un refresh: ti dispiace che sparisca, anche se sai che non esiste realmente.

A dirla tutta, e a lato di tutte le riflessioni spesso non proprio profondissime che si possono fare sulla fotografia che forse è cambiata forse no, sul nostro tempo, sugli automi che sostituiranno gli umani e signora mia dove andremo a finire, questo fenomeno non è proprio un inedito. Quando guardiamo un film ci appassioniamo e tremiamo per la sorte di personaggi fatti di celluloide. E a teatro empatizziamo verso attori che simulano di essere qualcun altro - che esistono cioè “in figura d’altro” (potremmo dire, anche in quei casi: empatizziamo verso “automi”, oppure “verso segni”, e sarebbe giustificato in entrambi i casi: l’automa è un segno? E viceversa?). Non può che essere cosi, del resto. Pure il volto di Bambi ci fa commuovere, e lui di sicuro non esiste. Fingendo di capire quel che stiamo dicendo, possiamo spiegare che siamo programmati geneticamente per reagire ai volti. Tutto il mistero è proprio come si passi dal reagire a un volto, cosa che un neonato sa fare a due mesi, al disegnare un volto, abilità pare inedita prima del Paleolitico. Di cosa stiamo parlando, allora?

Ora la faccenda si fa dura

Senza dubbio le sensazioni che potremmo provare di fronte alla foto di una persona sconosciuta sono “solo” nostre proiezioni. Peraltro ogni sensazione che proviamo quando ci immedesimiamo in un altro è una proiezione; e secondo le neuroscienze, a rovescio, qualsiasi osservazione di gesti altrui - ti guardo mentre compi un qualsiasi gesto - attiva i neuroni-specchio, cioè attiva l’immedesimazione (la “simulazione incarnata”) e l’uscire da sé: noi vediamo/capiamo cosa l’altro sta facendo solo “rifacendolo” in modo virtuale, “fingendo di essere lui”, “essendo in figura di”.

Questo potrebbe spiegare in parte la figuralità, che magari diamo per scontata ma è la cosa meno scontata di tutte. Noi produciamo figure - e le disegniamo dalla notte dei tempi ad esempio sui muri della caverna in forma di bisonti e gazzelle - come prosecuzione della nostra relazione di co-appartenenza al mondo, cioè della co-appartenenza tra io e l’altro che è la base della percezione/comprensione attraverso “l’essere in figura di”. Anche gli altri animali a quanto pare funzionano così. Noi, in più, produciamo fisicamente delle “figure”, cioè distanziamo fuori di noi quelle operazioni gestuali e neuro-gestuali che intessono il rapporto io-altro, piegandole miracolosamente su di sé e traducendole in “di-segni”: cioè in “confini di cose” tracciati e scritti, ossia nelle definizioni dei limiti delle reciproche parti che si co-appartengono e nella perfezione del loro essere “parte di, mancante di nulla”: tracciando la sua figura lui inizia a diventare bisonte, io cacciatore e proprio così, grazie a questo segno, resteremo per sempre uniti/divisi.

Questa distanza che così viene aperta e tracciata, allude di continuo a una provenienza comune, il rapporto di co-appartenenza, che non c’è più e a dire il vero non è mai stata “presente”: non poteva stare nella consapevolezza poiché la consapevolezza si dà solo nella distanza. E nello stesso tempo mi prepara ad avere il bisonte come “esterno”, come orizzonte futuro sempre rincorso. La civiltà umana inizia con la produzione di segni - pitture, manufatti - e con l’invenzione dei riti funerari e sacrificali, in cui si celebra la comune origine, e fine.

Più che sulla fotografia, forse questo strano fenomeno - empatizzare per qualcuno che non esiste o meglio esiste “in figura di” - ci dice qualcosa su come funzioniamo noi, sul fatto che siamo riflessi di figure che noi stessi creiamo. Ciò che si mostra in modo così preciso e scatena il carattere perturbante di questi “ritratti” è una memoria ancestrale: iniziamo a esistere come umani quando “l’essere in figura di” (la dimensione del segno) ci e-moziona (cioè segnala con una corrispondenza percettiva il nostro venire-da: ex-movere). Quando, ad esempio, dicendo ma-ma per la prima volta, piegando su di sé e raddoppiando un gesto vocale prima inarticolato (il due viene prima dell’uno!), ora possediamo in figura “la mamma”, l’abbiamo di fronte e anzi quasi in palmo di mano, nella parola conquistata, questa “parte perfetta” che direttamente da lei pare provenire; e insieme la proiettiamo a una distanza mai più colmabile dovendola per sempre ritrovare nei suoi gesti, nel suo apparire a quel “me” che siamo appena diventati. Diventiamo ciò che siamo al bordo di un’unità che non è mai stata presente: il segno ci assegna una provenienza - l’aver già corrisposto e interpretato, aver già che è sempre perduto nel nulla - e una destinazione - il dover sempre di nuovo corrispondere e interpretare i segni di quello che ora è lo star di fronte: “Mamma?”.


I mondi o l’errore del solipsismo

Non possiamo non percepire il mondo che dal nostro punto di vista tuttavia ritenendolo centrale; ma questa evidenza della propria centralità che ognuno prova per sé non è che il risultato del nostro essere da sempre il centro esatto di tutte le nostre percezioni attuali, di quelle che si affollano come continuo e perfino lacerante affiorare di ricordi gioiosi e dolorosi del passato e infine dell’incessante sussurrare segreto dell’io, sempre identico a se stesso da che possiamo ricordare fino a oggi (poiché l’io è in sé già tutto formato e non muta di una virgola da quando è emerso dal buio splendore dell’infanzia fino alla morte: non può mutare poiché non è, nient’altro c’è che il punto vuoto da cui vedi e parli). Il risultato è che noi siamo sempre al margine dell’altro e l’altro, reciprocamente, è sempre al nostro margine. Infiniti centri, infiniti margini. Sappiamo per averci ragionato (ma prima ancora: perché proveniamo da lì, ne siamo fatti, siamo ancora dentro quel tessuto di mondo, ma l’abbiamo dimenticato) che anche laggiù, dietro quegli sguardi che non siamo noi, minuto per minuto c’è vita e percezione come in noi, ma questo sapere non ci tocca e anzi ci pare, pensandoci, quasi assurdo, un argomento ragionevole ma che non sentiamo affatto; sentiamo invece la nostra centralità, che immediatamente esclude l’ovvia centralità degli altri ognuno per se stesso, che essi evidentemente - perché lo deduciamo dai fatti - devono sentire. Solo a volte, per un istante, magari per un incrocio di sguardi o di presenze mentre camminiamo e qualcuno ci viene incontro, ecco è vicinissimo e poi ci supera, in quel frammezzo congelato come tra animali guardinghi - sei il mio pasto o la mia morte? - la reciprocità del sentire smette di essere un sapere e diventa percezione: per un istante siamo in mezzo, in un nulla di determinazione che ci fa sentire come decentrati, dissociati da noi stessi. Altre volte accade quando guardiamo la fotografia di una persona sconosciuta, ne immaginiamo fulmineamente la vita e ne riceviamo la ferita (il punctum di cui parla Barthes ne “La camera chiara”). Altre volte ancora è un frammento di conversazione ascoltata e subito perduta nella fiumana di voci che ci sbalza e ci proietta proprio lì, dietro i suoi occhi e di colpo, ma per pochissimo, vediamo come potremmo vedere se non fossimo noi ma lui, vediamo che anche lui vede da un centro e cioè vede noi come margine, al bordo della visione, così che per un istante noi stessi siamo scalzati dal nostro centro e diventiamo il nostro stesso margine e in quell’istante, che non dura, sappiamo che anche lì si è svolta una storia e allora vorremmo risalire ai particolari, rivedere magari un fiume tra gli alberi, una camera d’albergo, un armadio, i vestiti, le fotografie, il pettine sulla mensola, sapere la verità, tutta la verità finalmente.


Sudori freddi


Quand’eri piccolo a un certo punto ti tagliavano i capelli cortissimi, non dico proprio a spazzola ma quasi, e se andavi a giocare e correvi a lungo, nella bella stagione, arrivava quel sudore, specialmente sulla nuca. La toccavi con la mano ed era una sensazione strana sentire la nuca bagnata tra le punte della sfumatura. Bastava fermarsi per qualche minuto e il sudore rapidamente si raffreddava tra i capelli umidi, una goccia colava nella schiena, quasi una consapevolezza. Non che ti dispiacesse, andare dal parrucchiere. Meglio dell’anticamera del dottore o del dentista. L’attesa in un posto di adulti rendeva sempre il respiro corto e nell’aria, assieme ai grani di polvere tra l’ombra e il sole filtrante a lame dalle veneziane, fluttuava invisibile il presagio di un futuro incontrollabile e spaventoso, più grande di te. Ma dal parrucchiere quell’ansia abbandonata sulle poltrone troppo grandi di fronte allo spettacolo era quasi piacevole. Sapevi che questi adulti avevano in mira solo i tuoi capelli e le loro mosse, i loro balletti, i loro tic di forbici scattanti e pettini roteanti li rendevano simili a giocolieri. Guardavi i tuoi capelli cadere a ciuffi sul lenzuolo bianco da cui emergevi solo col capo, li vedevi ormai salme sul pavimento spazzati dalla scopa senza che il tuo morto lascito corporale ti suscitasse più di una curiosa, oscura nostalgia, come si guardano le unghie tagliate via e raccolte nella mano o il corpo di un insetto torturato che scappa da nessuna parte.

(maggio 2005)


Fotografi e cacciatori


In un’intervista di Stefano Chiodi riportata su Doppiozero, Jean-Francois Chevrier, parlando delle fotografie di Raul Hausmann, ne ricostruisce così le intenzioni:

«Nel 1975 era uscito in Francia un libro di Michel Giroud dedicato a Hausmann intitolato Nous ne sommes pas des photographes, una frase (“noi non siamo fotografi”) ripresa da un testo del 1921 in cui Hausmann, il “dadasophe”, come si faceva chiamare, criticava la fotografia in quanto strumento di appropriazione estetica, vale a dire di una compulsione alla registrazione visiva che pone l’operatore in una posizione di dominio e di possesso. Si può essere artisti-fotografi solo lavorando contro la fotografia, producendo immagini che permettono di combattere l’atteggiamento compulsivo dell’appropriazione estetica. Agli occhi di Hausmann la fotografia è il sintomo di un handicap spirituale dell’essere umano, che lo spinge a sottomettere il mondo ai parametri meccanici indotti dall’obiettivo della macchina fotografica».

È una notazione bellissima: il fotografo/cacciatore mosso dal desiderio di possedere esteticamente ciò che registra/fotografa - adeguandosi così al carattere meccanico del gesto e dell’apparecchio - inteso come portatore di un handicap spirituale, di una perversione in forma di erotismo estetico, di una compulsione di cui, per fare davvero arte, ci si deve liberare.

E tuttavia, a ben vedere, quella di Hausmann assunta da Chevier (“occorre rifiutare l’appropriazione estetica, vale a dire la compulsione alla registrazione visiva che pone l’operatore in una posizione di dominio e di possesso”) potrebbe essere, almeno da un certo punto di vista, un’idea piuttosto ingenua, nel suo implicito modernismo. L’idea che si debba o si possa evitare la tendenza all’appropriazione estetica insita della fotografia (e intendo quella vertigine di desiderio che si prova nel fotografare un oggetto e vederlo in qualche modo “amplificato”, quasi vibrante, nell’immagine che “stacchi dal mondo” e ti porti a casa, e che Robert Adams descriveva così: «Per molti aspetti sceglieremmo di passare mezz’ora davanti al quadro di Edward Hopper intitolato “Domenica mattina” piuttosto che stare lo stesso tempo nella strada che ne è il soggetto») è un’idea di profilassi igienica che forse non coglie la complessità del tema.

Sottovaluta cioè il “potere dell’immagine”, qualsiasi essa sia, potere che noi definiamo appropriativo (ed estetico, nell’accezione contemporanea che ormai coincide con la teoria dl kitsch), ma che più all’origine è una manifestazione del potere di auto-etero-definizione proprio del segno: non ci sono - come ci ricorda sempre Carlo Sini - prima il soggetto e l’oggetto tutti formati, e poi i segni, appiccicati sopra o in mezzo, che li nominano e li uniscono (tra cui le immagini che li rappresentano). Soggetto e oggetto si formano poco a poco in una trafila di azioni, gesti, commerci di cui l’immagine è un limite decisivo ma non separato.

Accade come come nelle letture moderne dell’arte primitiva interpretata come “mentalità magica”: i primitivi, si dice, dipingevano bisonti sulle pareti delle grotte perché pensavano ingenuamente che agire sull’immagine volesse dire per magia agire sull’animale. Così “si appropriavano” (ecco l’origine del problema scorto da Hausmann) dell’anima dell’animale e andavano a caccia più fiduciosi.
Il processo andrebbe in realtà ribaltato: non c’è alcun bisonte e alcun umano in partenza, bisonte e umano si creano poco a poco, in secoli o millenni di evoluzione, stagliandosi da un orizzonte comune attraverso prassi e gesti che in nuce “fanno segno”, tra cui fuggire o ricorrere, venir attaccati o cacciare in gruppo per uccidere - azione che ne presuppone moltissime altre coordinate tra loro - nominare e dividersi la preda e così via. L’immagine dipinta allora non è un feticcio che unisce cacciatore e animale belli e formati, ma una soglia attraverso cui un animale diventa altro da sé ri-guardandosi e così crea sé e l’animale altro, cui continua tuttavia a essere legato come da un patto di sangue che è “fatto” proprio dai gesti, tra cui il ritrarre in immagine.

Dipingendo il bisonte l’uomo della pietra non pensa ingenuamente di appropriarsi di un altro essere, come pensano i moderni (dovrebbe essere del tutto scemo a pensare questo, e la magia non c’entra nulla con questa scemenza che è tutta moderna), semmai celebra una comune pro-venienza da uno stessa culla “naturale” e così facendo stacca, proprio nell’immagine, una destinazione che è solo “umana”: nell’immagine uomo e bisonte sono ancora lo stesso, sul punto di diventare altro l’uno dall’altro (nel diventare l’uno l’altro dell’altro). Entrambi si posseggono e nel gesto - che è quello dell’uccidere/essere uccisi e quello del dipingere, il primo come base del secondo che ne è la piegatura su se stesso, al quadrato - si uniscono e si dividono, all’infinito.

Nel fare immagine tutto questo è sempre presente (ci sarebbe da considerare semmai in che modo la fotografia rinnova a modo suo questo gesto), perché non ci siamo noi già fatti, e le cose già fatte, e poi le immagini che vengono dopo e uniscono i primi alle seconde, per cui il problema sarebbe depurare le immagini dal loro fondo primordiale e ingenuo ed “emotivo” fatto di pensiero magico e brama di possesso. È anzi questa visione a essere ingenua e a fraintendere come “brama di possesso” quella che è una rituale celebrazione - cioé una danza sul filo - di una provenienza comune tra “me” e “l’albero” che sto fotografando (atto che “mi rivela” quanto io e l’albero siamo in realtà prodotti finali e ultimi di infinite trafile di prassi e gesti simili a questo di fotografare), celebrazione che apre una sempre nuova distanza e destinazione interpretante e lo fa in e-mozione (che non è un palpito del cuore ma il far risuonare una pro-venienza). È l’esser comune che fa segno nel fare immagine e nell’istante stesso in cui lo fa, e proprio per ciò, diventa esser altro.


Fabula rasa


1
un programmatore megalomane inserisce un codice nei suoi prodotti che li spingono a venerarlo.

2
un uomo sogna di dover ridare l’esame di maturità, benché laureato. Con suo disappunto nel sogno la cosa appare normale. Nel frattempo la moglie accanto a lui sogna che tutti i suoi vestiti sono spariti. Quando si sveglia, l’uomo è solo, e non è mai stato sposato.

3
un uomo ruba un quadro che raffigura un uomo che ruba un quadro che raffigura un uomo che ruba un quadro che raffigura un uomo che ruba un quadro… Il pittore, seccato, dipinge un altro quadro in cui un pittore brucia un quadro in cui un pittore brucia un quadro in cui un pittore brucia un quadro in cui un uomo ruba un quadro, piuttosto bruciaticcio.

4
una donna spinge una carrozzina sulle strisce pedonali. Il figlio che vi dorme dentro un giorno sposerà la figlia dell’uomo che ha rallentato l’auto per lasciarla passare. Abiteranno a Viterbo.

5
una donna sola ma distratta legge ogni giorno sul treno romanzi d’amore. Un uomo di professione scrittore si siede ogni giorno di fronte a lei in silenzio sperando di notare interesse nei suoi confronti. Una volta la donna alza gli occhi e lo osserva. Ma nel libro lui ha appena lasciato lei per una pallavolista ucraina. La donna abbassa gli occhi, disgustata da tanta crudeltà narrativa. Lui arrossisce di vergogna.

6
un uomo scrive un libro comico di grande successo, in cui imita lo stile di un superfilosofo molto noto, suscitando ilarità generale. Tremila anni dopo gli archeologi ritrovano il libro, unico della sua epoca a essere sopravvissuto. Nei mille anni di prosperità che seguono intere generazioni di studiosi lo leggono riverenti, ma nessuno capisce mai nemmeno una battuta.

7
un uomo scrive una parodia di un romanzo molto noto, suscitando ilarità generale. Il romanziere, uomo riservato di cui non esiste alcuna immagine, se ne risente e lo denuncia. Al processo tuttavia il querelante non si presenta, al suo posto invia una memoria in cui ritira la querela. Il processo viene annullato. All’uscita del tribunale il parodista si fa fotografare sorridente in pubblico con il romanzo parodizzato bene in vista nella mano; la foto finisce su tutti i giornali. Giunto a casa, egli la ritaglia, la incornicia e la pone accanto al manoscritto del romanzo.

8
un uomo ascolta in sogno una musica bellissima, più profonda e toccante di tutte quelle mai ascoltate finora. Al mattino è rapito ed entusiasta: cerca di corsa un foglio per trascrivere tutto ciò che ricorda e risuona ancora in lui, sempre più flebile. Di colpo, con la matita in mano, si ricorda di non saper scrivere le note.

9
un uomo cammina sul bordo del marciapiede. È vestito troppo elegante per i suoi gusti e per il clima. Il passo è spedito ma insicuro, sbanda, due dita sono stabilmente infilate nel colletto ad allargare il nodo della cravatta. Oggi tutto congiura contro di lui. Un regolare e lento meccanismo lo sta catapultando nella disgrazia, e non può farci nulla. Trascina una valigia, come chi disperi che un aereo per un posto sconosciuto sia la soluzione. Fugge, ma non sa ancora da cosa, o perché. Sa che tutto sta crollando sotto un’estate sospesa e canicolare.

10
una donna prende un impegno gravoso senza riflettere, per leggerezza. Più passa il tempo più si accorge che non sarà in grado di assolverlo. Presa dall’ansia, non sa cosa fare: non può più rinunciare e nemmeno proseguire. È immobile.

11
un uomo di una certa età ha perduto la capacità di distinguere il presente dal passato e vede le persone così come le ricorda da giovani. A un angolo di strada ferma la moglie e indicando dice: “Guarda, è Maria, non è cambiata per niente”. La moglie china il capo e mormora qualcosa di spiacevole all’indirizzo di un’anziana sull’altro lato della strada. La sua rivale, sessanta anni fa. In effetti il tempo non è passato.

12
un uomo ha un piccolo bar in una zona ben frequentata. Ha lo stesso viso e lo stesso modo di fare di quando aveva quattordici anni, anche se ora comincia ad avere qualche capello bianco. Quando non ci sono clienti si pianta sulla porta d’ingresso fumando una sigaretta e scuotendo il capo, e fa gli stessi pensieri idioti di allora.

13
i fiori gialli crescono come sempre nel prato. I bambini che ci giocavano girandoseli tra le dita ora sono uomini fatti.

14
un uomo molto pigro sogna la trama di uno splendido romanzo. Sveglio, se l’appunta su un foglio. Ma è troppo pigro per scriverlo davvero, così col tempo se ne dimentica. Negli anni successivi si troverà a vivere tutti i passaggi di quel romanzo nella sua esistenza. Malauguratamente, nel ruolo di un personaggio secondario.

15
In un luogo sorgono ventinove città, poste in mare una dietro l’altra su piattaforme quadrate, sollevate dall’acqua da un gradino di marmo. Sono collegate tra loro da una strada di granito, che in qualche punto si interrompe per riprendere più avanti, lasciandone così isolate alcune. A volte sono minuscoli villaggi immersi nel verde da cui emerge solo il campanile, altre volte sono piccole cittadine che occupano tutta la piattaforma. Passando a mezza quota in aereo le puoi vedere una dopo l’altra nel mare tempestoso e grigio, ed è uno spettacolo che crea una vaga inquietudine.

16
un uomo deciso ma un po’ sbadato esce di casa e passeggia per una via affollata di passanti. Dopo un’ora, guardandosi in una vetrina, si rende conto di aver messo la maglietta a rovescio; le cuciture interne fanno bella mostra di sé. Imbarazzato vorrebbe togliersela, ma non può farlo davanti a tutti. Resta immobile un istante, poi di colpo allarga le braccia e le alza con decisione: tutto l’universo in quel momento si rovescia su se stesso come un guanto, ripristinando l’ordine alterato. Così è nato il mondo che conosciamo.

17
un bambino si diverte a gettare acqua dentro un formicaio, sotto un platano vicino a casa sua. L’erba e il tronco di quell’albero gli resteranno impressi nella mente per tutta la vita, senza che lui nemmeno lo sappia. Il che rende inutile questo appunto.

18
un uomo cerca sempre di portare la pace e di non contraddire nessuno. Non contraddice il primo che attacca il secondo, non contraddice il secondo che offende il terzo, non contraddice il terzo che ingiuria il quarto. Non fa in tempo a non contraddire il quarto che, tutti assieme, lo prendono a pugni.

19
un uomo crede di amare una donna. Osserva con attenzione i sintomi: strani sogni, pensieri inaspettati, aspettative, lievi alterazioni biochimiche che agiscono sui suoi stati emotivi. Eppure quasi non la conosce. Certe cose infatti accadono solo nei libri o nei brevi racconti. Fermo sulla soglia, si chiede se precipitare gli procurerà questa volta più gioie o più ferite. In realtà crede soltanto di essere fermo, allo stesso modo in cui crede di amare: è tutto il racconto che precipita e si accartoccia come un foglio nel fuoco.

20
un bambino gioca a calcio ai giardini. Ha sette anni e sogna di diventare un grande portiere. Il nonno gli scatta una foto. Le impiegate passano veloci nei vialetti del parco rincasando. Una di loro compare nella foto, in alto a destra. Rimarrà solo un camminare confuso, e un volto dolce.

21
un ragazzo straniero sta appoggiato a un palo all’uscita di un bar. Osserva un gruppo di ragazzi in crocchio che scherzano a pochi metri da lui. Una parte di lui vorrebbe essere tra di loro ma un’altra vorrebbe dimenticarsi che esistono, e di esistere. Perso in questi pensieri, si è scordato del suo compito.

22
un bambino pensa spesso al futuro e si immagina che ne sarà di lui da vecchio. Ci pensa continuamente anche se non si accorge di farlo, è come un sottofondo o una musica che si porta sempre dietro mentre pensa ad altro. Si chiede chi deve diventare e cosa accadrà e come saranno le cose a quel punto. Si immagina anziano mentre osserva la sua vita a ritroso. È qui che guarda là che riguarda qui, in uno specchio rovesciato. Come se volesse piegare il tempo in un anello ritorto: questo.

23
una persona conduce una doppia vita. Di giorno è un brillante e colto uomo di mondo, abile seduttore, viaggiatore, parlatore sagace e viveur di classe. Ma di notte all’insaputa di tutti, davanti alla televisione diventa un impiegato di concetto anonimo e ordinario, sfoga i suoi bassi istinti in vizi segreti e perversioni casalinghe, coltiva passioni e odi nascosti, inconfessati e si stordisce in degradanti paradisi artificiali. Un vero criminale.

24
un barista di cinquant’anni, scapolo, che lavora in un fast food del centro, si ammala di cancro al polmone. Continua a lavorare, anche se il suo aspetto è ogni giorno più smagrito. Alla sera torna al suo appartamento, dove si cucina qualcosa. Sembra un’ombra. Dopo la sua morte, un barbone che frequenta quel fast food chiede a una giovane barista dove sia finito quell’uomo. “Lui aveva quella sua malattia” dice lei. “L’avevo visto che era magro per la sua età” dice lui. Discutono di quanti anni avesse effettivamente.

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un uomo rimasto solo decide che è ora di smetterla con i rimpianti. Chiama la ditta di traslochi e fa portare via il letto matrimoniale e tutti quei mobili pieni di ricordi. Questa notte dormirà nella stanza accanto, su un altro letto, singolo. Al mattino si sveglia strano, e con un terribile torcicollo.

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un uomo viaggia in metropolitana seduto in fianco a una ragazza dai capelli lunghi e rossi, assorta nella lettura di un libro. Guardandone distrattamente le pagine si rende conto che il protagonista del libro è un uomo con il suo stesso nome. Incuriosito continua a leggere senza dare nell’occhio: il libro parla effettivamente di lui e sembra descrivere esattamente tutta la sua storia: in quella pagina, quasi alla fine della lunghezza complessiva del volume, si racconta di come sia seduto in metropolitana vicino a una ragazza assorta nella lettura. La ragazza chiude il libro e fa per alzarsi. Lui vede il titolo sulla copertina: Una vita. Prima che possa scuotersi dallo stupore e rivolgerle la parola, il treno giunge alla stazione, lei si alza, scende, le porte si richiudono. Alla fermata successiva l’uomo si precipita fuori sconvolto, sale le scale e corre in una libreria, chiede del libro, lo compra, paga in tutta fretta e mentre esce lo sfoglia avidamente. Vi si narra la storia di una ragazza dai capelli lunghi e rossi.

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un uomo solitamente trasandato decide di pulire finalmente la sua casa. Dedica un giorno intero a lavare e spolverare ogni cosa. Compiuta l’opera, è stanco e va a dormire. Il giorno dopo va al lavoro come sempre. A sera rientra nella sua casa pulita, si siede sulla sua sedia pulita, e osserva a lungo la stanza pulita. Non accende nemmeno il televisore pulito. Ogni cosa se ne sta immobile. Silenziosa e pulita. Pensa a come portare quest’ordine impossibile dentro di sé, ma non sa da dove partire. Non c’è un detersivo adeguato.

28
una donna esce per la pausa pranzo e va al parco. Si siede su una panchina, infila l’auricolare del microtelefono nell’orecchio, compone un numero a caso e inizia a inveire nervosamente. Caduta la linea, compone un altro numero a caso e ripete l’operazione. Fa così tutti i giorni per mesi, per anni. Finita l’ora di pausa, ogni volta, si alza e torna in ufficio. Un giorno le risponde un uomo dicendo: “Io mi ricordo di lei, mi ha già chiamato qualche anno fa”. La donna tronca la comunicazione, resta in silenzio per qualche istante, fissando il vuoto. Poi si alza e tornando in ufficio getta il telefono in un cestino.

29
un narratore scrive solo storie di tre righe ma vive in un paese di logorroici in cui tutti lo prendono per matto.

novembre 2005


Il due viene prima dell’uno



Nella poesia era quasi caduta in disuso, ma sopravvive bene nelle filastrocche per bambini e nelle canzoni: la rima è il fossile vivente che ci ricorda l’antica filiazione di ciò che noi chiamiamo poesia dall’antica “arte” (poesis) del narrare cantando, quella che, con un ossimoro, chiamiamo “letteratura orale”, cioè la sterminata produzione “epica” che gli antichi aedi (e prima di loro altri di cui non sappiamo nulla) cantavano in pubblico, nel cerchio della tribù. 

Nella rima noi vediamo assieme due cose: la ripetizione e la memoria. La ripetizione è: qualcosa ritorna e così ne abbiamo coscienza e memoria, perché solo quando ritorna la ri-conosciamo come uguale e insieme differente. In questo movimento circolare e primordiale, il primo non è mai un conoscere, solo il secondo lo è. Il due viene sempre prima dell’uno, che letteralmente “non è (mai) stato” (*). 

Da un punto di vista pratico la rima trasforma un testo piano, diretto e trasparente cioè in sé invisibile perché finalizzato a trasmettere un contenuto (a farlo andare da qui a lì) sparendo come testo, cioè come oggetto, in un canto, cioè un oggetto ben visibile finalizzato invece a far risuonare un evento, a farlo restare qui, nel cerchio del canto e della danza. Un testo che contiene delle rime è in qualche modo “alla seconda”, è opaco, è quindi un testo che “si guarda”, “si sa” in quanto testo e non solo in quanto veicolo trasparente. Non procede diritto: in qualche modo, continuando a ritornare su di sé e a ripetersi variando, sta in un cerchio mentre lo produce. Come i passi di una danza, il suo movimento a 8 o a spirale procede fino a un certo punto per poi piegarsi indietro e tornare, e di nuovo procede e di nuovo ritorna, a saltelli, a balzi, a retromarce. Perché tutto questo? Il perché sta in ciò che produce, il senso è nei suoi effetti. 

Cantando, o ascoltando qualcuno cantare, proviamo commozione e questo accade molto più spesso di quanto invece accada nella lettura di un testo scritto, a meno che non sia un testo che contiene - in figura, in melodia, in tono, in ritmo - alcuni elementi del canto. 

L’effetto del canto, nel cui grembo sta la rima, è la capacità di sprigionare le emozioni. Tuttavia non sono, quelle che il canto estrae, emozioni sfrenate. Le sprigiona, ma nello stesso tempo pare trattenerle: il risultato di questo doppio gesto è di farle ruotare intorno a noi. Detto in altri termini: le educa (le porta-fuori). Nel canto le e-mozioni si ri-guardano (diventano sostanze, come vedremo) e si ri-conciliano. Rima, melodia, ritmo, tutto concorre a questo risultato: la melodia ritorna continuamente su di sé, proprio come fa la rima, non solo perché si ripete nelle strofe, ma perché segue un ritmo, cioè la cellula basilare della ripetizione, la cellula in cui il due - la coppia, la relazione - precede l’uno e doppiandolo lo crea, creandone la memoria. 

In genere si dice che gli antichi inventarono l’artifizio della rima per ricordare meglio quei lunghissimi componimenti recitati e cantati, in un tempo in cui ancora non esisteva la scrittura come supporto alla memoria. Classico modo di invertire causa ed effetto. Bisogna semmai intendere che la memoria inventò gli “uomini” - che non esistevano e semmai iniziavano solo allora a essere tali - (e la coscienza!) come effetto del loro stesso cantare. Cosa cantavano? Di nuovo la memoria, cioè gli antenati, insomma i morti. E ne facevano sepoltura (è il primo rito di cui abbiamo testimonianza, che evidentemente conteneva in sé canto e danza). Voltandosi indietro, cantavano la propria memoria nel momento in cui potevano vederla - solo l’uomo infatti vede l’invisibile, l’assente: posso dire “cavallo” ma non c’è nessun cavallo qui. Il linguaggio non è che una continua evocazione di ciò che non c’è, del morto cantato. 

Ciò che veniva agito nel rito, era agito come rito: forma e contenuto si rispecchiano e ciò avviene per tutti i sensi e in tutti i modi che noi chiamiamo “cultura”. Il ritorno indietro dello sguardo su ciò da cui siamo venuti, su chi ci ha generati, l’invenzione della memoria e della storia come “ciò che possiamo dire” (e non solo subire o agire, come nell’animale), accade come canto cioè come ritorno della rima, che batte sul calco del ritmo - il battito continuo e ripetitivo che continua a ritornare, come di legno che batte “a tempo” su un altro legno: su questo si fonda ciò che chiamiamo musica. Ma è lo stesso ritorno costituito dalla figura dell’animale tracciata dalla mano “umana” sul fondo della caverna che “doppia” il mondo, su cui si fonda ciò che noi chiamiamo pittura. 

Il mondo (una sua parte) doppia se stesso in figura cioè nel proprio perfetto limite e confine, nel limite in cui è perfetto (ecco il senso della figuralità) e così può guardarsi nel proprio specchio, nello specchio che lui stesso è. Ciò che sta diventando uomo ma è ancora mondo piega il mondo/sé su di sé, è il mondo che si auto-piega e così crea la distanza sempre incolmabile (perché ciò da cui proviene non “c’è” prima) del proprio destino. Solo in questa ripetizione - del ritmo, del suono, della voce, della figura - solo ritornando, voltando, solo piegando sé su di sé, il mondo può vedersi (vede sé) e può prendere consapevolezza di sé. 

Per questo si e-moziona: l’emozione qui non è ancora un sentimento dotato di una propria sostanza, ma è il senso della propria pro-venienza: emozione è “venire-da” (ex-movere), provenire. Ogni provenienza che scopre se stessa si e-moziona, si com-muove (si muove assieme), cioè si ri-conosce: ecco il senso del rito funerario e del canto degli antenati come fondazione della “cultura” umana. Ma ogni provenienza, come tale, comporta anche una destinazione, ogni riconoscimento (dell’uno che “non c’è mai stato” ma sorge nella memoria e come memoria) produce un destino. Sempre dovrai rimembrare di nuovo perché non sarai mai una volta per tutte nel posto da cui provieni (non ci sei in effetti mai “stato” perché ancora non “eri”, lo divieni di continuo “rimemorandolo in avanti”), e questo rimembrare, che non può riposare in un ritorno impossibile, l’uomo se lo figura nella forma della ripetizione sempre diversa, nel ritmo, nella rima, nella forma, nel canto: sempre sarai nel cerchio interminabile delle rimemorazioni, cioè delle interpretazioni. 

Tutto quanto nell’orizzonte dell’umano è piegatura di piegatura, ritorno di ritorni, ripetizione di ripetizioni. L’uomo che noi vediamo come salto in avanti, è in quello stesso gesto (nello stesso tempo, che qui inizia a sorgere) una piegatura indietro. E in questa piegatura pratica - gestuale, verbale, musicale, corporea, figurale ecc - del mondo su di sé scaturisce il “significato”, cioè il canto dell’assente in quanto segno di nulla: ma qui si riconosce e si assegna la nostra interminabile destinazione, l’afferramento sempre rimandato, la danza senza fine che crea il mondo.


***

(*) È il mistero della somiglianza: come può una cosa somigliare a un’altra - un cavallo a un altro - o addirittura a se stessa se ogni volta non è che un fascio di impressioni? Dovremmo avere in mano un terzo - un “modello” - per confrontare l’impressione passata con quella presente e coglierne le ricorrenze, trovare “lo stesso”. Senza somiglianza, non esisterebbe alcun tipo di conoscenza, mentre l’esperienza ci dice che anche gli animali “riconoscono”. Mistero che la metafisica logica dei Greci risolse ribaltando il sapere degli antichi prima di loro e rigettandolo come “magia” oscura e insensata e inventandosi la prigione immobile del “mondo dello spirito”, l’iperuranio: sede dei “modelli ideali”, dell’eidos concettuale - il “visibile con la mente” cioè “l’immagine mentale”, la sostanza immateriale opposta a sostanza corporea, punto di origine dell’idea di anima immateriale ed eterna come seme del Dio in noi, che funzionando da medio ci permette di conoscere l’impressione B come ritorno dell’impressione A e di poter dire: è un cavallo.


I fatti incerti

I malli di noce frantumati a terra, pestati
dai piedi dei passanti
che esalano quell’odore vegetale
umido di carcassa verde.

Il lascito di un cane dalla forma
così tortuosa da sembrare un tubero
esotico o una radice disseccata.

Un uomo che indossa un contorto busto ortopedico
e si impettisce mentre cammina
c’è una donna con lui;
appoggia le mani alla struttura di metallo
che lo regge, non vuole sembrare menomato
ma lo vedi che qualcosa in lui si vergogna.

Una ragazza con il volto rifatto, le sue ossa
sono state resecate, spostate
e mentre ti parla ne riconosci la voce ma non ti spieghi
come possa uscire da quel sorriso sconosciuto.

Una fioritura di t-shirt arancioni ai giardini
gli studenti bambini in libera uscita sono ovunque
anche se un uomo di passaggio ha per caso
una maglia dello stesso colore
forse scatenerà timor panico senza volerlo.

La temperatura è nelle medie stagionali, gradevole
per le nostre abitudini.

Oggi è un giorno qualsiasi e per quanto tu proceda
con la massima lentezza non sai proprio
come distinguere le apparizioni che contano.
Come decidere il catalogo e assegnare le prime file
proprio non lo capisci. Distribuisci i posti a casaccio?
E forse non dipende nemmeno dalla cancellata
di guglie acuminate che circonda questa bolla di mondo
come hai sempre pensato.

2007


Dall’altro lato

chi avrà deciso la disposizione del tappeto di robinie sulle pendici dei colli?
e le quattro vette distanti pochi metri avranno ognuna un nome a difenderle dalla sera che scende
e le vallette e i massi erratici e sopra quale ordine di grandezza e persino i sassi
e le foglie? dei cinque condomini costruiti nell’ansa del torrente al fondo della conca la sigla riposa
in un libro nell’ufficio del catasto

così quando chiudevo gli occhi vedevo macchie di colore giallo o verde fosforescente
sbocciare sopra un fondo cobalto se il sole intermittente forzava le palpebre
(un fatto irrilevante se ci fosse una regola a distinguere ciò che è giusto rimanga)

a turno guardavamo i riflessi nella lamiera i lampi dalle cromature rottami a ossidare
nei cimiteri il gas alla bocca del tubo corrodeva la gola rivoltava - eppure mio fratello
ne aspirava l’ebbrezza - dal sonno sui sedili tornavamo storditi la guancia un lago
la prima volta che svoltata l’ultima curva riconobbi la nostra casa nel viale avevo forse quattr’anni

tornando mio padre sorrideva deposta la giacca dell’ufficio d’estate in canottiera
quando tagliava l’anguria a mollo per due ore nella vasca una goccia da quell’urna fresca
era una feria ma come brillava a sera la sconfitta nelle sue minuzie furiose quella tenacia
rovinosa a scalare un prodigio sghembo il suo inutile tesoro di abilità

la Coda seminava una pioggia di ipotesi come spore - nascevamo
dai padri operosi dalle madri feroci a mazzi pieni germinavano i prati dei sobborghi di case
e di balconi di aquiloni rincorsi nei giorni festivi di cortili (e padri gentili secondo i costumi nuovi) pranzi sui sedili una volta ci colse il temporale vicino al Lago Maggiore la tovaglia i panini
(chi lavava e rilavava la seicento ai bordi delle rogge chi salpava su navi centimetrate dentro mari profumati di cognac) dal cielo infinito proiezioni di futuro in forma di figli e cucine arredate sedie
con zampe cromate sogni di dopoguerra - in una lettera leggevo siamo io e te amor mio la terra promessa era un numero civico preso in affitto nei lunghi viali

l’ombra dagli angoli nascosti dalla foglia ammutolita spariva nei corridoi nei tinelli dei parenti
nei rotocalchi raccolta in pozzanghere nel muschio tra le pietre incastonata in forma di serpe
che dava il tormento negli oratori nelle sere d’estate i figli degli immigrati cantavano sulle biciclette
ci faremo largo tutto sarà dimenticato

e poi il giorno si è girato dentro il giorno incastonato il serpente infinito ha morso ancora
il nuovo frutto la vita indifesa sfolgora tremante mentre comincia la discesa di nuovo
la scena mancante del contrappasso di nuovo stritolato ecco il finale adatto

23.5.2007

-> Summer of ‘69


L’incubo del narratore

La sovrabbondante, perturbante, disperata bellezza di ciò che sorge e tramonta.
Ad esempio, camminare molto, molto lentamente lungo un’immaginaria linea retta nel corso affollato, mentre il mondo ti viene incontro. E ciò che viene incontro compare dal nulla nel tuo orizzonte e procede da ogni punto intorno, sbocciando, svanendo.
Visi bellissimi e insignificanti, frammenti di camminate, brani di conversazione che ascolti un istante, da ogni punto suoni che sorgono e svaniscono, tracce di corpi che caracollano attraversando lo spazio, parole pronunciate e sospese, toni di voce nel buio illuminato a giorno, “la superficie divenuta calma in cui fluttuano determinazioni slegate, come membra sparse, teste decollate, braccia prive di spalle, occhi senza fronte”.
È quello che metterò nel sottotetto.
Il tempo di attesa non è che.
L’amico di Giuseppe ci ha.
Se vuoi lo chiamo però.
Trovato un appartamento che.
L’infinita sovrabbondanza di ciò che appare, perfetto nella superficie, nelle modulazioni che presenta, le delicate piegature di carne da cui il mondo esplode e tramonta. Ogni cosa procede verso di te. Puoi fermare uno a uno, nel mezzo del corso, osservare il suo viso, ogni elemento fino alla curvatura della palpebra, alla peluria, alle pieghe più riservate, allo scintillio acquoso dell’occhio. Oppure potresti fermare ogni persona e chiederle cosa stavi dicendo? e farla proseguire, spiegare, farti dire, farti narrare la storia, risalire a una camera, un armadio, i vestiti, le fotografie, il pettine sulla mensola, farti dire la verità, fartela dire del tutto, finalmente.
A metà del corso quattro indios suonano bach con fisarmonica e violino. Sulla soglia una nuvola invisibile e assordante di passeri nascosti tra le foglie.

-> Illuminati

4.1.2005


Punto fermo

Se penso che un tempo la mia opinione ferma, avendo forse in odio il figlio che sono, o l’esser genitore, e volendone fuggire il destino a rotta di collo per gettarmi in una vita diversa e lontanissima da quella vissuta nell’infanzia e da una famiglia come tante

immagina: padre madre fratello, impiego fisso, lei casalinga amatissima, quarto piano al Lorenteggio, lui le notti nel ripostiglio a limare i bei sogni del dopoguerra infilati in bottiglia in forma di vascello fantasma, un’infinita abilità nelle mani ma sprecata, inutile come l’infernale diurno passacarte e d’estate la festa: un’anguria a freddare nella vasca, senza contare le sterminate sere nel tinello buono al lume della televisione e insomma, quanto t’odiavo e t’amavo allora padre mio, poi la tristezza sempre accanto e il fucile puntato degli sguardi altrui, il tallone del mondo sempre sulla schiena

e insomma volendo fuggire a capofitto verso una vita che immaginavo allora libera e senza lacci che fossero d’amore o di doveri e impieghi, capuffici, noia e non so dire con esattezza qual altra fantasia mi agitasse, e quale spavento e nausea, quale desiderio fortissimo e adolescente lungamente sviato: respirare, finalmente

ecco se penso che il mio intendimento fu in piena coerenza di non volerne di figli, per nessun motivo e anzi una volta, molto tempo dopo, quando pareva che l’errore un figlio l’avesse chiamato nostro malgrado io caddi stecchito proprio come l’adolescente che non ero più restando a fissare l’aria per tutti i giorni necessari alla smentita, e mi portavo inebetito qua e là riuscendo soltanto a mormorare qualcosa come e adesso? terrorizzato com’ero da quel “per sempre” che il divenire padre porta con sé e non perché la mia vita fosse poi come l’avevo sognata (anzi che te ne fai della libertà se ci sei nato a capo chino? ormai convinto com’ero di esser tagliato da un ceppo fradicio e inadatto al fuoco)

se penso che tutto questo accadeva in un tempo nemmeno lontano da una lunga, luminosa sera in cui tu issato sul mio ginocchio come sull’albero maestro chiacchieri la sola frase che sai, dentro un sorriso in cui non si distinguono carne e cielo e la tua mano non s’è ancora chiusa contro di me, come farà, e non conosci ancora questo ripostiglio di parole non migliore delle quattro pareti di mio padre, ora finalmente posso ridere di me e della smaccata, felice verità: quanto coglione ero, non l’immaginavo nemmeno. Quanto lo sono ora, non m’importa più.

21.7.2008

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