Fenomenologia del foglio di sala

La fotografia che si pretende d’arte spesso intende se stessa come un apparato puramente visivo (1) e per questo si presenta programmaticamente e talvolta perfino polemicamente come un’attività muta e silenziosa, dichiaratamente estranea al linguaggio verbale. Un’attività, insomma, che diversamente dal linguaggio avrebbe a che fare con misteriose “capacità intuitive” nascoste dentro l’autore che comunicano direttamente con analoghe capacità contenute nel fruitore (2). Quando non si sa come spiegare un fenomeno si ricorre spesso a sostanze e agenti misteriosi contenuti nella testa o in altre parti del corpo.

«Le parole non possono definire in modo esauriente l’opera, non possono mai esaurirla», si dice: il che però vale anche per le opere fatte di parole (la poesia ad esempio, che agonizza nelle traduzioni e muore nelle parafrasi). Cosa si dovrebbe dire in quel caso, che le parole non possono esaurire le parole? Una stranezza che dovrebbe suggerire che c’è qualcosa che non va nell’analisi.

Naturalmente ogni opera fotografica, che lo voglia o no, vive solo circondata da una miriade di pratiche testuali, che vengono prima (nell’ambiente culturale dell’autore e nella sua testa) e dopo (fogli di sala, testi critici, commenti, interviste e così via) senza i quali non esisterebbero autore e opera. Anche se l’opera si presenta muta, sappiamo bene che non lo è affatto. Come non esiste “l’occhio”, disincarnato e senza un corpo, così non esiste “l’immagine”, senza il tessuto vivente da cui emerge.

Si ritiene tuttavia, a posteriori, che questi testi siano secondari e ininfluenti, al limite irrilevanti, e per questo, condannati a vivere ai margini, facilmente diventano territorio di scorrerie verbali in cui si cerca di mostrare “cosa vogliono veramente dire” quelle opere o, in alternativa, si forniscono indicazioni come si fa coi passanti o con gli stranieri che cercano piazza del Duomo. A volte questi testi hanno un tono descrittivo e si rivelano in realtà essenziali, ma spesso, specialmente nelle presentazioni, nei comunicati, nei fogli di sala, adottano un frasario vagamente sociologico o pseudofilosofico o addirittura improbabilmente lirico; utilizzano, allo scopo, una gallerie di cliché verbali e di parole chiave, non perché utili a costruire un discorso sensato, piuttosto come boe di segnalazione, ammiccamenti utili a indicare appartenenze, confini, scuole, a evocare suggestioni o tradizioni. I cliché di segnalazione sono ovviamente soggetti a mode e mutamenti di gusto: conviene tenersi sempre aggiornati! Decenni di “rizomatico” potrebbero mostrare la corda prima o poi.

Ma attenzione: così come quei testi, grazie alle parole-esca, forniscono all’osservatore pseudo-informazioni circa il contesto artistico allo scopo di decodificare il lavoro visuale e nel contempo gli forniscono l’impressione piacevole di “aver capito”, di far parte dei pochi fortunati ammessi a corte (perché l’arte tutto è fuorché democratica), allo stesso modo altri e speculari cliché visivi sono collocati nelle opere e permettono, a chi ne è in grado, di interpretare il lavoro visuale attribuendo a esso intenzioni e modalità tipiche di quel particolare contesto, o corrente, o scuola.

Curiosamente però nessuno esporrebbe opere senza gli irrilevanti apparati testuali esterni, nell’impossibilità pratica di spiegare a voce “il senso dell’opera” a chiunque la veda (attività che comunque è quasi sempre svolta quando l’autore è presente, tranne nei casi in cui autori e spettatori ammiccano tra loro segnali di intesa da “non ti devo dire niente”, come iniziati al Grande Mistero). Anche le opere di cui un’esplorazione visiva non potrebbe che ravvisare i cliché di scuola e corrente, non essendoci quasi nient’altro da vedere come di un seme di cui sia rimasto solo il guscio vuoto, necessitano sempre di una guida esterna verbale, utile a chi non è in grado di ravvisare quei cliché al volo e rischierebbe di esaurire l’esplorazione dell’opera in un continuo girarci intorno e venirne rimbalzato, come una mosca che cerca di attraversare il vetro che non vede.


Viene da pensare che se togliessimo i cliché verbali dai testi e i cliché visivi dai lavori visivi, se eliminassimo indicatori e segnalazioni, forse potremmo trovarci di fronte a un puro rumore bianco in forma di parole e di immagini: una superficie di non-senso da percorrere nelle sue venature e ripiegare su di sé, finalmente, in un modo che parli di noi. E non è proprio questo ripiegarsi su di sé di testi e figure (che a loro volta sono “mondo” che si piega su di sé) che li sposta dal “voler dire qualcosa del mondo”, all’essere il mondo in cui qualcosa è detto, cioè a diventare “arte”? Senza bisogno di intuito o di altre sostanze misteriose.

Ecco perché una cosa sensata e forse utile da fare, di fronte a questo spettacolo, è giocare con i cliché mettendo all’interno i testi che dovrebbero stare fuori, e all’esterno le immagini che avrebbero stare dentro. Agitare, non mescolare, e servire freddo.


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(1)
Diversamente dalla fotografia documentaria o dal fotogiornalismo, che non si ritengono completi senza apparati di testo che ne illustrano il contesto.

(2)
Poiché rispetto all’opera, il suo autore non è necessariamente in una posizione migliore rispetto a tutti gli altri per dirne “la verità” (se lo fosse non avrebbe prodotto l’opera), questa autocomprensione va correttamente intesa come il primo “testo di commento esterno” all’opera e non ne modifica in alcun modo il valore, se c’è. Esistono poi ovviamente moltissimi lavori nei quali la presenza di parole è del tutto superflua, e molti altri in cui sono compresi dei “testi interni”, che in quanto tali sono parte delle opere e non sono intesi come loro commenti. Si tratta di opere che a volte esplorano proprio il territorio comune tra verbale e immaginativo, nell’ipotesi che non si tratti di regni in conflitto, semmai di lati della stessa medaglia.

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