One man shot
Le foto finalmente spiegate come si deve.
L’immagine è una scrittura visiva. Quello che vedi è quello che c’è. Ma se la traduci in parole, ottieni un’altra immagine che dovrai di nuovo tradurre, all’infinito. Non perché lei sia inesauribile: perché tu lo sei. Gli esseri umani sono interminabili, anche se finiti. Inesauribile non è l’immagine, che è perfetta così com’è. Inesauribile è il guardare e interpretare e dire e mutare avendo guardato e riguardare, all’infinito
Note sull'autore
Narciso unchained
L’autore sembra aver fatto alcuni autoscatti e averli poi assemblati tra loro, forse ricordandosi Van Dyck e il suo Carlo I (o l'orefice di Lotto?). Il libro nella mano pare una citazione di un quadro di Magritte (“La reproduction interdite”) in cui lo stesso libro compare appoggiato su una mensola. Stranamente la copertina del libro è perfettamente leggibile, proprio come se fosse dentro un quadro: essendo la foto di uno specchio, dovrebbe essere rovesciata, come infatti è rovesciato il numero scritto sulla cassetta di pronto soccorso nell’angolo in alto a sinistra. Invece è diritta. Come è possibile? Perché vediamo il numero sulla cassetta giustamente rovesciato e il libro invece diritto? La spiegazione è semplice: la cassetta è un riflesso dello specchio, il libro è contenuto nello specchio. Solo in un caso di può fare una foto a uno specchio e avere un risultato non rovesciato: se ciò che fotografo non è fuori, ma dentro lo specchio. Quindi il personaggio che vediamo vive nello specchio. Ora: ciò che chiamiamo "Io" si può descrivere proprio come un puro riflettere senza sostanza, in sé vuoto, che quindi non evolve come fa il corpo, ma si limita a guardare da fuori persino il corpo in cui è. Come il quadro di Magritte, tra l’altro, pare suggerire. L’Io è cioè un puro rimbalzo, un provenire da fuori che nel provenire si scopre, si sa, come se fosse confinato dentro uno specchio e non potesse mai davvero uscirne: uno specchio dotato di memoria (guarda caso questa è anche una delle definizioni della fotografia, che quindi sarebbe una pratica essenzialmente egoica?). La foto descrive allora l'impossibilità dell'Io di uscire davvero da sé, cioè in definitiva di “conoscersi attraverso gli altri”, quindi il suo oggetto è l’Io come prigione. Del resto come si potrebbe vivere felici dentro uno specchio largo un metro? Se poi pensiamo che l’Io è persino più stretto di un metro, è un punto, un puro riflettere senza estensione, si può capire che la claustrofobia è il minimo che il protagonista si possa aspettare. Ecco perché non se ne sta mai fermo e buono ma si volta in tutte (e quattro) le direzioni, come preso in una giostra, come una falena che cerca l’uscita, un cerbero con una testa di troppo.
Io sono ciò che manca
La foto presenta in apparenza i due profili del soggetto ritratto, come se si incontrassero e si potessero conoscere. Ma a un’osservazione più attenta, da alcuni particolari, ci accorgiamo che il profilo è uno solo, copiato e rovesciato. Quindi la foto mente! E infatti al protagonista cresce il naso. Nessuno infatti può incontrarsi come si incontra un amico o il panettiere sotto casa, con il suo volto imbiancato e tutte quelle frasi di circostanza che ne fanno una maschera, eppure così vera. Per farlo, per incontrare te, dovresti essere lui, almeno per un istante. Sì, puoi parlare tra te e te come per raccontarti storielle, e lo fai spesso, ma è un parlare vano, senza sostanza. Tu resti il tuo punto cieco, e non potrai mai averti di fronte e stringerti la mano come a un fratello o a un amico. Tutto quello che puoi fare, in momenti di grazia, è sorridere delle tue giravolte. Ma poi, mentre lo fai, ecco che una figura pare sollevarsi, inattesa.
Staged
La finestra opaca
La fotografia, che siamo soliti considerare come una finestra trasparente aperta sulle cose del mondo, quando invece è essa stessa una cosa del mondo, piatta e opaca (o retro-illuminata), su cui la luce riflessa ha lasciato delle tracce, mostra il finestrino aperto di un’auto al cui interno – che chiameremmo esterno se credessimo davvero di essere di fronte a un finestrino e non a una foto di un finestrino – si vede un graffito tracciato su una parete. Sul lato sinistro della fotografia, che ha l’aspetto di un’istantanea, si nota anche una parte dello specchietto retrovisore dell’auto, che mostra un frammento di strada esterno all’inquadratura (che tuttavia vi compare all’interno). Osservando meglio il graffito però notiamo un’anomalia: pare scombinato, scomposto, le sue linee sono spezzate in modo strano e non combaciano. La particolare struttura a pannelli della parete ci viene in soccorso e ci permette di formulare un’ipotesi plausibile, una ricostruzione degli eventi il cui esito è stato registrato dalla fotografia e che possiamo raccontare nel modo seguente. «Un tizio monta dei pannelli a lato di un cantiere. Un altro tizio passa e lascia un graffito con il suo codice distintivo. Il primo tizio (o forse un terzo) smonta in seguito i pannelli, poi lui stesso o forse un quarto li rimonta altrove, o forse nello stesso posto, ma nel farlo mischia la sequenza dei pannelli e così confonde il codice che vi era stato tracciato sopra. Infine un ultimo tizio passa e dall’auto fotografa il risultato e nella fotografia (che ha l’aspetto di un’istantanea) si vedono anche il contorno del finestrino dell’auto e una parte di specchietto retrovisore che mostra un frammento di strada esterno all’inquadratura». La fotografia non è quindi solo una superficie piatta e opaca: grazie alla sua opacità può esservi scritta una storia, la storia della stratificazione dei messaggi in forma di eventi ad opera di varie persone, registrata dalla macchina fotografica che, come finestra e specchio, adeguatamente collocata e orientata nel verso giusto, ne dà conto. E infine la fotografia è anche una riflessione (espressa nel testo che stai leggendo) in forma di immagine su tutto questo processo, una sintesi virtuosa e fortunata del modo in cui normalmente opera la macchina fotografica.
Tre specchi
Quando si scatta una foto la fotocamera registra nello stesso attimo sia ciò che sta davanti sia ciò sta dietro la fotocamera. Normalmente chi privilegia “davanti” sottolinea il fatto che la foto è una traccia di ciò che ha registrato e lo mostra in modo muto, come un messaggio privo di codice, oppure una sua testimonianza, un documento. Chi invece privilegia “dietro” pone l’accento sulle intenzioni dell’operatore, che la foto trasmette a chi osserva, oppure sui suoi moti nascosti, di cui nemmeno lui è consapevole, di cui la foto è un involontario autoritratto. Autoritratto quantomeno curioso visto che l’autore non vi compare: traspare, piuttosto, dalle decisioni consapevoli o inconsce messe in atto al momento dello scatto, o almeno traspare un frammento della sua biografia. La fotografia sembra quindi somigliare alla pittura “dietro” e distanziarsene invece “davanti”. Peccato che una volta scattata, dietro e davanti appaiono il medesimo, anzi non appaiono più. Da qui la sua ambiguità e anche la possibilità di scriverne opinioni sempre giuste e sempre sbagliate. Le tre foto seguenti affrontano questo tema. Almeno in apparenza.
Nella fotografia, che qualcuno ha definito uno specchio dotato di memoria, compare uno specchio abbandonato sulla strada, appoggiato alla base di un albero, in mezzo a terra e sterpi. Lo specchio è rotto nella parte superiore e mostra il controcampo, ossia ciò che normalmente la foto, in quanto specchio rivolto verso il mondo, non è in grado di mostrare. Nel controcampo si scorge una parte di un’auto, i rami di un albero e l’autore della foto che stai guardando, ripreso nell’attimo in cui la stava scattando. Nell’angolo in alto a sinistra compare una ragazza la cui bicicletta è quasi del tutto uscita dall’inquadratura e che, a causa del movimento, appare sfocata. Sull’altro lato un’auto è quasi appoggiata all’albero, e la sua ruota pare fare rima con la ruota dell’auto che compare nello specchio e con quella della bicicletta. Cosa mostri la fotografia è arduo da dire. Forse il tempo nelle sue estasi: l’attimo presente che sta uscendo dall’inquadratura, il futuro oltre il bordo, il passato dentro lo specchio e anche l’eterno nel circolo, o meglio nel quadrato, che racconta. Ma è solo un’ipotesi.
Nel quadrato di una foto in stile istantanea compare l’immagine di un muro ricoperto d’edera che lascia intravedere al di là un giardino di palme e altri alberi. Al muro sono appoggiate le parti smontate di un armadio di fattura economica, la maggior parte coricate in orizzontale tranne un’anta a specchio, verticale. Lo specchio riflette, come un sogno a buon mercato, la finestra con bifora della casa di fronte al muretto e una porzione di cielo. Le parti di armadio sono con ogni probabilità in attesa di essere prelevate dai netturbini e portate in discarica. Eppure nello specchio da poco trasformato in spazzatura pare intravedersi un castello, forse collocato in un’altra dimensione, forse accessibile solo attraversando lo specchio. Tutto quanto fa venire in mente la scena finale di Che cosa sono le nuvole, di Pasolini. Anche lì della spazzatura pensante, abbandonata per strada, rifletteva sulla bellezza del cielo e sulla “straziante meravigliosa bellezza del creato”. Un buon titolo per questa foto, se non fosse già stato usato troppe volte (due quelle significative), sarebbe “La condizione umana”.
L'io o l'errore del solipsismo
Non possiamo non percepire il mondo che dal nostro punto di vista tuttavia ritenendolo centrale; ma questa evidenza della propria centralità che ognuno prova per sé non è che il risultato del nostro essere da sempre il centro esatto di tutte le nostre percezioni attuali, di quelle che si affollano come continuo e perfino lacerante affiorare di ricordi gioiosi e dolorosi del passato e infine dell’incessante sussurrare segreto dell’io, sempre identico a se stesso da che possiamo ricordare fino a oggi (poiché l’io è in sé già tutto formato e non muta di una virgola da quando è emerso dal buio splendore dell’infanzia fino alla morte: non può mutare poiché non è, nient’altro c’è che il punto vuoto da cui vedi e parli). Il risultato è che noi siamo sempre al margine dell’altro e l’altro, reciprocamente, è sempre al nostro margine. Infiniti centri, infiniti margini. Sappiamo per averci ragionato (ma prima ancora: perché proveniamo da lì, ne siamo fatti, siamo ancora dentro quel tessuto di mondo, ma l’abbiamo dimenticato) che anche laggiù, dietro quegli sguardi che non siamo noi, minuto per minuto c’è vita e percezione come in noi, ma questo sapere non ci tocca e anzi ci pare, pensandoci, quasi assurdo, un argomento ragionevole ma che non sentiamo affatto; sentiamo invece la nostra centralità, che immediatamente esclude l’ovvia centralità degli altri ognuno per se stesso, che essi evidentemente - perché lo deduciamo dai fatti - devono sentire. Solo a volte, per un istante, magari per un incrocio di sguardi o di presenze mentre camminiamo e qualcuno ci viene incontro, ecco è vicinissimo e poi ci supera, in quel frammezzo congelato come tra animali guardinghi - sei il mio pasto o la mia morte? - la reciprocità del sentire smette di essere un sapere e diventa percezione: per un istante siamo in mezzo, in un nulla di determinazione che ci fa sentire come decentrati, dissociati da noi stessi. Altre volte accade quando guardiamo la fotografia di una persona sconosciuta, ne immaginiamo fulmineamente la vita e ne riceviamo la ferita (ne parla Barthes ne “La camera chiara”). Altre volte ancora è un frammento di conversazione ascoltata e subito perduta nella fiumana di voci che ci sbalza e ci proietta proprio lì, dietro i suoi occhi e di colpo, ma per pochissimo, vediamo come potremmo vedere se non fossimo noi ma lui, vediamo che anche lui vede da un centro e cioè vede noi come margine, al bordo della visione, così che per un istante noi stessi siamo scalzati dal nostro centro e diventiamo il nostro stesso margine e in quell’istante, che non dura, sappiamo che anche lì si è svolta una storia e allora vorremmo risalire ai particolari, rivedere magari un fiume tra gli alberi, una camera d’albergo, un armadio, i vestiti, le fotografie, il pettine sulla mensola, sapere la verità, tutta la verità finalmente.
Mosca cieca
Nella foto presa dall’alto, a sorvolo, come se fosse una definizione o un proclama, si scorgono i piedi del fotografo-testimone e tre tessere di un puzzle per bambini abbandonate, probabilmente smarrite, sul limite tra il disegno ordinato delle pietre squadrate e la terra informe. Due sono voltate verso l’alto e mostrano ognuna un’immagine - una chiave inglese, un secchio di colore - una verso il basso. È impossibile ricostruire il messaggio completo del puzzle, ciò che possiamo vedere è piuttosto l’esibizione di un’assenza: le tessere mancano, il significato è perduto. Ciò che vedi nella foto è indubbiamente ciò che c’è: ma ciò che c’è è l’allusione a ciò che non c’è. Da una parte se nella foto vedi mistero, ambiguità, enigma, il mistero è chiaramente presente in modo esibito e aperto, vi è stato collocato, è stato scelto. Ma la foto descrive una condizione più generale: vedere vuol dire vedere "più di ciò che si vede", vuol dire accedere a un lato che non vediamo ma che sappiamo esserci (cosa nasconde quella tessera rovesciata?), a una latenza, a una profondità, a un rilievo che abbiamo già frequentato e ora riverbera mentre siamo immersi in quel mondo bidimensionale e lo esploriamo con il nostro corpo virtuale - perché non bastano gli occhi per vedere, serve un corpo virtuale colmo di memoria e intenzioni. Il visibile “è” l’invisibile e nessuno dei due è mancante, non c’è da nessuna parte un positivo e un negativo: tutto è qui, senza esserci del tutto. Così un’immagine non può che sfuggirci sempre, ma non in un profondo mistero, che semmai è tutto in superficie, non perché sia indicibile o dicibile solo per formule da iniziati, anzi è la sorgente di infiniti modi di dire: piuttosto sfugge nella distanza da se stessa. L’immagine, la figura, il raddoppio con cui raccogliamo e celebriamo lo stesso in forma d’altro (cioè tutto ciò che abbiamo smarrito tenendolo in mano e teniamo in mano proprio per averlo perduto per sempre, cioè insomma la cultura), è in sé nient’altro che la misura della distanza da se stessa, da ciò che non è più, anzi che non è forse mai stata. In questa esplosione di distanza, in questa fessura di vuoto che nasce dal raddoppio che fa scaturire ciò di cui è raddoppio (l'oggetto della rappresentazione non la precede, ne è effetto e ricordo) noi siamo situati mentre vediamo. Le figure parlano di sé, e lo fanno parlando d’altro. L’enigma, il mistero, è il gioco di un bimbo, da sempre risolto e disfatto, spiegato e ripiegato infinite volte.
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Nel mito si narra di Dioniso fanciullo che ricevette dai Titani in dono, allo scopo di distrarlo, vari giocattoli tra cui uno specchio, e mentre il dio del mondo guardava il proprio riflesso, essi lo uccisero dilaniando le sue carni e facendolo a pezzi. Ma quindi, cosa vide davvero Dioniso nello specchio? Secondo alcuni egli guardandosi si conobbe e vide se stesso, cioè: l’universo intero, frantumato nella sua infinita molteplicità di enti e nature nella loro vorticosa danza. Così che l’atto di conoscersi (di rappresentarsi a sé) e l’esser fatto a pezzi è da intendersi in realtà come lo stesso atto che il cantastorie, nella sua astuzia, ci tramandò diviso.
L'oggetto della rappresentazione non preesiste alla rappresentazione: ne è l'effetto, il ricordo. Per questo volerlo ritrovare come "oggetto autentico" oltre la cornice della rappresentazione, o la finestra del testo, è un compito non inutile, ma infinito.
Il linguaggio è mondo che si piega su di sé in figura e così si distanza da sé: linguaggio che indica e mondo indicato. L’arte a sua volta è linguaggio piegato su di sé e così reso inutile: ora non ha altro scopo se non se stessa, non parla che di sé. Ma così diventa per tutti il mondo che il linguaggio indicava: lo rappresenta poiché lo diventa. Come ciò possa accadere non si può dire del tutto, non perché sia misterioso, ma perché è “l’altro” del linguaggio a piegarlo, il suo orlo. Solo così il corpo del linguaggio può mostrarsi e rappresentare il corpo del mondo e chi l’ha piegato, che sorge e si mostra come testimone.