Di cosa parlano le immagini?

Testocronaca non del tutto fedele della presentazione online del libretto “Sono sempre stato qui” avvenuta mercoledì 9 dicembre 2020 avvenuta durante l’evento “20 libri nel “2020” organizzata da Chippendale Studio.

Sono sempre stato qui e ho molti modi per fartelo credere” è un libretto di fotografia contemporanea, è rettangolare (l’oratore tiene in mano il libretto e lo mostra alla telecamera), ha una quarantina di pagine e al suo interno compare una sola fotografia, ripetuta e accompagnata ogni volta da un testo diverso: è quindi un libro di fotografia che ad ogni pagina prova a rispondere alla domanda: sì, ok, ma che cosa sto guardando?
Perché ho prodotto questo libro? L’ho prodotto per venire incontro alla pressante domanda del pubblico medio, domanda che sorge spontanea quando questo pubblico guarda libri di fotografia contemporanea. Voi avete senz’altro presente il pubblico medio che tutti noi a volte siamo, io quasi sempre: prende in mano un libro di fotografia contemporanea, tipo il mio, lo sfoglia, lo risfoglia compulsivamente, non ci capisce niente, lo gira lo rigira e alla fine disperato AH! (l’oratore si gira di scatto e con un urlo scaglia violentemente a terra il libretto, poi si volta e con calma ne prende un altro dalla scrivania) lo scaglia per terra, talvolta ferendo in modo superficiale persone che si trovano sulla traiettoria. E ogni volta mentre lo scaglia lo sentiamo formulare la domanda: ma insomma cosa sto guardando, di che cosa parla?

Ecco, di che cosa parla, di che cosa parlano le immagini? Ma soprattutto: le immagini parlano?

Noi siamo abbastanza abituati a pensare di no, le immagini non parlano altrimenti non sarebbero immagini: le immagini sono immagini, i testi sono testi, sono cose separate e anzi devono restare ben separate, di qui ci sono le immagini che vediamo e riconosciamo con gli occhi, e di là ci sono i testi, e i testi stanno a lato, e possono funzionare semmai come commento sempre imperfetto e inesauribile, si dice.

Salvo scoprire che in realtà senza il titolo, la didascalia, il commento, il testo di spiega, senza il “sai, vuol dire così e cosa”, senza il foglio di sala, il testo critico, magari l’intervista, cioè senza un apparato di apprendimento e un apparato di fruizione, istruzioni per l’uso che si riferiscono a pratiche sociali entro cui viene prodotta, qualsiasi immagine d’arte contemporanea (ma io direi tout court qualsiasi immagine), è opaca, chiusa, quasi illeggibile, se non per il suo valore estetico o decorativo (che è purtroppo l’antitesi dell’arte contemporanea, si dice).

A mio parere il rapporto tra immagini e linguaggio verbale, e quindi la domanda su cosa sono le immagini e su “cosa sto guardando?” diventa interessante quando noi proviamo a sospendere alcune di queste nozioni che pensiamo di sapere.

Noi pensiamo che riconoscere “un’immagine come immagine”, sia una cosa ovvia perché impulsivamente trattiamo l’immagine come una finestra trasparente, che sta qui, aperta verso il suo referente, che sta o stava là, e quindi basta guardarla: io ti faccio vedere una foto e ti chiedo: che cos’è? Tu rispondi: è un cane, è ovvio, “si vede” che è un cane. Ma “vedere” è proprio una cosa così ovvia?

Non proprio. Intanto perché la macchina non registra “oggetti che stanno là” ma valanghe di saperi concettuali, intenzionali e prospettici incorporati nella macchina, nel fotografo e persino nel “là”. Il puro “essere stato là ” di stati di cose è un effetto di realtà prodotto da protocolli, da saperi, da posizioni e intenzioni che stanno di qua. Proprio niente “sta di fronte”, è quindi niente può essere mostrato come puro oggetto da una foto. L’idea di un “era là” assoluto è una retroazione, un effetto di autenticità operato proprio del rettangolo cartaceo che contiene la foto (come ogni “idea di oggetto” è una retroazione delle nostre pratiche percettive-conoscitive).

Quindi dobbiamo correggere l’affermazione dell’amico: quello che vedi non è un cane ma al massimo un’immagine di un cane, magari una foto di un cane, ma se poi la faccio vedere al mio gatto lui la annusa, ci gira intorno ma di certo non rizza il pelo e non scappa perché non è un cane, non sbava e non c’è nessuna “immagine di cane” per lui, cioè: non c’è nessuna trasparenza, il meccanismo non è ovvio. Perché per noi lo è?

Secondo alcuni perché noi siamo fisiologicamente e culturalmente attrezzati ad abitare le immagini, cioè a proiettarci nell’immagine con tutto il nostro corpo virtuale, sviluppando un rapporto gestuale, percettivo, emotivo e cognitivo con lo spazio dell’immagine che è simile a quello che già viviamo in ogni istante (o è quello che viviamo a essere simile all’altro? L’umanità ha inventato le figure che tracciava sulle caverne, o sono caverne e figure ad aver inventato l’umanità?). Noi abitiamo lo spazio, ne siamo parte e prodotto, siamo “fatti della stessa carne del mondo” e per questo possiamo “vederlo”: «Il mio corpo mobile rientra nel mondo visibile, ne fa parte. Ecco perché posso dirigerlo nel visibile. Le cose e il mio corpo sono fatti della stessa stoffa» (Merleau-Ponty). Siamo fatti della stessa carne del mondo e per questo possiamo farne esperienza cioè creare distanza dal suo interno, cogliendo le linee di forza, i pieni e i vuoti, agendo di sponda, qui sono comodo, là sono in pericolo, mi avvicino, trovo linee di fuga e di equilibrio: è questo attivo comporsi del mio corpo in uno spazio abitato il prototipo di ogni “composizione” delle immagini di cui posso fare esperienza abitandole con lo sguardo (quando si dice che “le linee guidano lo sguardo” si sta dicendo questo).

Quindi, questo significa che col cavolo un’immagine è un’immagine e basta, col cavolo che esistono immagini pure o mute, innocenti o trasparenti: in realtà non esiste immagine che non contenga infiniti testi impliciti, che infiniti osservatori possono attivare quando proiettano il proprio corpo virtuale nell’immagine. E d’altro canto non esiste testo che non sia pieno di immagini: il linguaggio verbale è un tessuto di usi figurati, la trama dei loro spostamenti, delle metafora, uso di “figure in forma di segni”. Quindi testi e immagini forse sono gemelli siamesi, parte di un’unica capacità di fare segno e figura.

Ecco che allora tutta questa traballante montagna teorica cosa produce? Naturalmente produce come si conviene un topolino e questo topolino è appunto il libretto “Sono sempre stato qui”, nel quale una sola immagine, di cui io ignoro l’origine, diventa l’occasione per una fioritura di possibilità che io ho assemblato mettendo insieme ricordi personali, fatti veri, fatti inventati, fantasie e poi mischiando il tutto.

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