Nessuna fotografia è silenziosa

(Testo introduttivo al lavoro ”Istruzioni per essere come dio”)


Nessuna fotografia è silenziosa.

Ogni fotografia, in quanto documento, reperto e traccia da decifrare e per quanto possa apparire muta e silenziosa, contiene in realtà infiniti testi, che siano generativi (i testi impliciti che abitano l’autore: collocazione, intenzioni, storia, saperi da cui è parlato, contenuti e moventi inconsapevoli da cui è spinto e attratto) o proiettivi (il bagaglio di conoscenze e sentimenti vissuti da chi la guarda, che devono essere proiettati nel corpo virtuale dell’immagine perché vi sia intepretazione). Per non parlare dei saperi impliciti e attivi nella macchina, quelli che Franco Vaccari chiamava “inconscio tecnologico” (saperi ottici, fisici, chimici, filosofici, raccolti e dormienti nell’apparato tecnico).

Se “vediamo” una fotografia (un’immagine, in qualsiasi modo sia prodotta) e non un confuso ammasso di forme e colori, è perché contiene sterminati saperi impliciti o potenziali che vi riconosciamo, vi leggiamo, vi proiettiamo, cioè perché è, per noi che la guardiamo, enormemente ciarliera, anche fosse l’enigma il suo modo di apparirci, il muto alludere a una presenza sottratta: anche in tal caso sarebbe l’opera di quei saperi calati in un supporto. Vedere non è mai solo vedere, è abitare e interpretare in base a ciò che conosciamo o presumiamo. Lo sguardo “retinico” e privo di cervello è semmai uno sguardo disumano, paragonabile all’occhio di un Dio primo motore immobile o semmai all’obiettivo meccanico che guarda tutto e magari reagisce, ma in realtà non vede niente.

In questo lavoro, che appartiene alla raccolta “Fotoromanzi” (otto serie di fotografie nella quale esploro alcuni degli “infiniti modi di dire” che possono emergere dalle immagini dimenticate), ho utilizzato un escamotage letterario e pseudo-filosofico, corredato da un protocollo tecnico paradossale, per simulare in modo geometricamente comico lo sguardo “supremo” di un essere onnisciente, in grado di osservare le cose da tutti i punti di vista: dio, macchina o inconscio artificiale inconsapevole che sia.

Attraverso questo apparato testuale ho inteso da una parte predeterminare la successiva esplorazione visiva, in modo da condizionarla e parodiare i trucchi dello storytelling che si pretende creativo, ma è solo meccanico, iniziatico o sentimentale.

D’altra parte il lavoro prende di mira l’idea che la visione sia un fenomeno assoluto e neutrale, assunto tipico dei sistemi di sorveglianza e degli usi della fotografia come cattura estetica, auto-seduzione o strumento di potere che trasforma in oggetto ciò che guarda. In questo modo il lavoro allude, per differenza, a quanto la visione umana sia invece naturalmente incarnata, collocata, parziale e legata alla proliferazione di elementi testuali e immaginativi.

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