La coda dell’occhio

«L’Essere è un sistema a più entrate: esso non può essere contemplato dall’esterno e nel simultaneo, ma deve essere effettivamente percorso», Maurice Merleau-Ponty

Da un punto di vista puramente ottico, che non è l’unico possibile, la fotocamera si presenta come una macchina cartesiana, cioè come un dispositivo per la visione di un campo di estensione colto da un punto di vista privo di estensione, dove con “visione” si intende un raggio che scandaglia le cose a sorvolo mantenendosene del tutto puro e intoccato, presupposto necessario per poterne disporre a piacimento. In tal modo simula non solo una funzione umana, ma come essa è intesa dentro un pensiero metafisicamente atteggiato, ossia simula ciò che i filosofi attribuivano alla visione di Dio: esterna, non implicata, assoluta, simultanea, in grado di vedere tutto da tutti i punti di vista contemporanemente.

In quanto macchina, cioè come astrazione e riproduzione potenziata e sempre disponibile di una funzione del corpo vivente, deve rendere “esplicita” quella funzione tramite la sua ricognizione analitica e il suo rimontaggio, affinché sia riproducibile e programmabile; di conseguenza, per quanto attiene al suo specifico, la visione che restituisce ci offre uno spazio ugualmente analitico e misurabile, assoluto, continuo e uniforme, totalmente percorribile, in cui il piccolo e il grande appaiono tali in rapporto alla distanza numerica, rispettando l’ideale di una visione razionale, cioè della traduzione del corpo vivente nel corpo della macchina ottica. Non serve dire che la traduzione operata dalla fotocamera non riproduce in modo nemmeno lontanamente fedele la visione messa in atto dal corpo vivente nel suo complesso, il suo essere presso le cose tenendole a distanza e viceversa, il suo essere co-implicata come una sorta di tatto a distanza che si modula in uno spazio fluido percorso da campi di forza a diverse densità, da passioni e repulsioni, da pericoli e opportunità, da previsioni ed esiti: è invece, al contrario, la visione di un mondo già bello e fatto di enti estesi in cui ogni cosa ha il suo posto rispetto a un occhio separato e privo di corpo che osserva. Nella pratica vivente non esistono da nessuna parte un occhio o una retina come enti a se stanti, né esistono immagini come “visibili assoluti” proiettate nel fondo del cervello come in una caverna o in un cinema di terz’ordine e archiviate nei suoi scaffali. Vediamo il mondo, non immagini; e lo vediamo essendone fatti e solo perché ne siamo fatti possiamo vederlo, lo vediamo nel comune commercio e da un’apertura di mondo ben specifica e collocata che solo quando viene ripiegata produce la propria figura, che è allora e insieme figura nostra e di quel mondo, autobiografia e racconto: il segno, l’immagine, il diagramma, lo strumento. Retrocedere all’indietro la figura sul corpo e farne un assoluto, un’essenza oltre le apparenze, da ritrovare sezionando neuroni o oltrepassando retine verso super-immagini, è semmai il sintomo di un incantesimo metafisico che non ci abbandona.


Si può tuttavia provare - e la fotografia contemporanea non fa quasi altro - a forzare i limiti dell’apparecchio, ad esempio prendendo una visione fuori asse, storta o magari dal basso (basso rispetto a chi?) o dall’alto (di nuovo, rispetto a chi? Un essere alto duemila metri costituito da filamenti e dotato di occhi lungo tutta la sua superficie valuterebbe cosa è più in alto o più in basso in modo molto diverso da noi. La formulazione stessa del proposito rende evidente che la pretesa di assolutezza e oggettività, proprio come la sua smentita, riposano su una misura umana, una media, un punto di vista comune). Oppure ci si può muovere più velocemente dell’oggetto immobile per turbarne l’aspetto e deformarlo a significare una penetrabilità reciproca tra gli enti ancora sulla soglia della percezione, o ancora si può andare molto lontani - di nuovo, rispetto a chi? - o molto vicini, in modo da mandare in sofferenza la capacità di “messa a fuoco” della macchina o ricorrendo a un’apertura ampia del suo unico “occhio” focalizzarne la visione su un punto facendo precipitare il resto per simulare una visione vivente, intima, non geometrica e di sorvolo. Si può anche concentrarsi sul necessario supporto, sull’emulsione, sul pixel, sulla carta da forare, spiegazzare, portare sopra oppure sull’immagine da tagliare, sovrapporre, accostare, montare. O ancora si può provare a smentire le attese di una configurazione docile, quel senso comune che riduce l’atto vertiginoso di abitare il corpo dell’immagine con il proprio corpo virtuale a un compitino fatto di regole sulla “buona composizione”, sui vuoti e sui pieni e sulle linee che “guidano lo sguardo” come una pecora nell’ovile, e portarlo, quel senso comune, fuori di sé per procurargli un danno - e adesso dove dovrei guardare, e cosa sto guardando? O si possono smentire le attese estetiche e concettuali su cosa deve davvero fare una fotocamera ribaltando i ruoli, mettendo lei al comando e osservando cosa accade se, attraverso un protocollo o un algoritmo, il dispositivo semiautomatico ci permette di portare alla luce tutto il nostro comune guardare e produrre figure come un immenso automaton, colui che muove se stesso. O magari percorrere il crinale originario tra figura e scrittura portando alla luce i testi impliciti nella fotografia o facendoli germinare all’impazzata, come erbe deliranti…

Certo è curioso che, nella pratica fotografica sperimentale e leggermente psicotica (come nevrotica è quella comune nella sua ossessione di cattura estetica, narcisistica e di controllo sempre frustrato), si ricorra a un trucco tecnico per accedere a una pretesa visione pre-categoriale da riferire a un essere grezzo, quasi pre-umano (non c’è umano senza tecnica, cioè senza saper fare “ad arte”), in cui l’occhio non sia inteso come una macchina di visione di uno spazio assoluto davanti a sé ma come un’apertura del mondo su di sé, ed è curioso che lo si faccia producendo immagini, figure, cioè segni, cioè macchine semantiche. Il sogno di catturare non tanto “le cose” (l’ingenuità, contro cui siamo ormai preparati, di chi pensa di averle davvero di fronte e di stare nella posizione di Dio che vede tutto), ma “il loro entrare in scena”, il mormorio quasi muto del loro essere sorgivo che è nel contempo il nostro e del segno che ce le consegna circondando tutto, è uno degli incantesimi e paradossi della fotocamera e delle sue immagini d’ombra che non smette di farci transitare lungo il bordo della caverna in cui ci illudiamo di essere, per sorprendere la nascita di un mondo che, in verità, da sempre ci attraversa da parte a parte nell’aperto in cui siamo e senza il quale nemmeno potremmo vedere.

(Foto di Bernd e Hilla Becher, Thomas Struth, Marina Ballo Charmet, Antoine d’Agata, Giulia Flavia Baczynski, Thomas Ruff, Kensuke Koike, Franco Vaccari, Stephen Gill, John Baldessari, Sophie Calle, Duane Michals, Joan Fontcuberta, Jean Baudrillard)

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