Vedere il vedere (il vedere)


Immagine tratta da “Istruzioni per essere come dio”


«Ogni visione del mondo è un’allucinazione linguistica, da cui non si può evadere se non contemplando l’occhiale che genera la visione. Questa contemplazione dell’occhiale linguaggio è l’ispirazione p(r)o(f)etica». Luca Nobile

Vorrei provare qui a discutere questa affermazione del mio amico Luca.
Forse evadere è un po’ ambiguo. Evadere verso dove? Evadere presuppone una gabbia e un mondo fuori dalla gabbia, ma come può essere un mondo senza essere “mondo”? E se le parole non stanno da sole ma sono l’anello di una catena di sterminate pratiche con cui gli animali “hanno il mondo nei loro costitutivi rimbalzi”, anello certo specifico ma non separato, dobbiamo per forza considerare tutta quella catena e i suoi anelli come l’immagine di una prigionia? Se quelle sono allucinazioni, vuol dire che c’è una “vera visione” da cui per differenza giudichiamo il loro carattere allucinatorio, o un luogo neutrale in cui paragonare tutte le allucinazioni e giudicarle tali: che lingua parla quel luogo, se non ci sono lingue che non siano allucinazioni? Come si può dare un vedere senza vedere, cioè senza occhi, i quali non possono che vedere qui e ora e in modo parziale e ambiguo? L’ipotesi ovvia, di un vedere/sapere/dire ab-soluto (originariamente divino e “dell’anima”), cioè depurato dalle ambiguità del linguaggio “naturale”, non è semmai la retroazione di un modo di considerare il linguaggio stesso come mero strumento al servizio della volontà di dire/possedere, che per scarto da sé poi immagina un uso “antico”, “non strumentale”, metaforico, estetico, ludico come zona franca, parco giochi, nostalgia o più sinceramente relitto per oziosi? Linguaggio “poetico” e linguaggio “scientifico” (l’idea stessa della loro natura) sarebbero allora semmai gemelli siamesi di uno stesso desiderio di accesso alle cose stesse “senza il linguaggio”, dove esso non è che una scala da buttare quando ci siamo arrampicati su. Ma se ribaltiamo questa idea pensando che non c’è uso che non sia metaforico, non dovremmo per coerenza ammettere che il senso stesso di “metaforico” cambia al punto da diventare inservibile (con tutte le conseguenze del caso), perché è il “proprio” a essere naufragato? E del resto da dove avremmo estratto l’idea di un “proprio”, un “non allucinatorio”, se tutto è metafora? Non è semmai l’inverso ciò che è storicamente accaduto?

Se non c’è un dove verso cui evadere, né è desiderabile trovarlo, allora è il carattere sorgivo del darsi del mondo come linguaggio “e viceversa” che può essere scorto quando il linguaggio si piega su di sé. Non è un luogo, è una condizione limite, una fessura cioè un nulla vuoto di quello stesso stare.

“Evadere” dà insomma l’idea che l’uso dello strumento (parola/immagine) che ha di mira la mira stessa*, ossia che tematizza in modo non strumentale il suo esser strumento, che parla di sé parlando d’altro (e viceversa), ripiegandosi su di sé per fare di sé il mondo di cui parla mostrandolo in palmo di mano, possa far accedere a un luogo che sta al di là della parola/immagine, a un mondo indicibile, un pre-mondo, alle cose stesse, che viceversa sono appunto due parole (cose stesse) che non c’erano prima di essere dette, e sono particolarmente vuote e inospitali, desolate e prive di vita. La bellezza e il piacere fisico di quel modo di usare il linguaggio è invece proprio percepire “in figura” (cioè al quadrato, in modo riflessivo) il venir al mondo figurale (cioè limitato e parziale) del mondo. Non c’è “mondo” senza la sua figura cioè senza pratiche infinitamente radicate nel corpo vivente che lo distanziano da sé e che solo alla fine, piegate su di sé, diventano parola e figura. “Possiamo parlare e vedere perché siamo fatti della stessa sostanza del mondo” (Merleau-Ponty) di cui parliamo e che vediamo, che in noi - e prima di noi nell’animale - si piega su di sé e si distanza in sé - con la nostra specifica distanza che è linguistico/figurale. Vedere non è una questione ottica: non c’è vedere senza immaginare, immaginare senza pensare, pensare senza parlare. E a ritroso, e tutto il resto.

Vedere questa distanza, vedere il vedere, non ci porta altrove ma ci fornisce la percezione della nostra genesi e della sua costitutiva presenza nella distanza, nella perfezione dell’essere parte.

Ciò cui si ha accesso in quel modo è cioè il senso del provenire, e ciò da cui “si” proviene cade nel nulla, cioè ac-cade, cioè non c’è “mai stato” in altro modo che così come accade ora (quando “in figura” lo “vediamo”). La mancanza che ci costituisce non è allora il non poter attingere a un presunto strato di stessità e coincidenza che ci sarebbe negato dall’essere calati nel nostro mondo/linguaggio fatto di separazioni, che come gabbia o schermo ce ne impedirebbe il godimento e da cui però per colpo d’abilità possiamo scantonare vedendolo di lato come chi esca dal cosmo sporgendo il capo all’indietro per osservarlo: questa nostalgia non è genuina, il suo desiderio è proprio quel possesso nevrotico delle cose stesse, è nostalgia di un fantasma sostitutivo, essa sì allucinatoria. Essere nella mancanza è semmai la modalità del nostro esser nel mondo, il suo darsi come cadere nel nulla della provenienza che non potrebbe mai darsi senza questo cadere: il nulla scaturisce dalla costituzione che si distanza e ci raccoglie assieme nel suo circolo vivente.

Luca Nobile è professore di Linguistica teorica presso l’Università della Borgogna.

* «Io traccio il mio bersaglio / intorno all’oggetto colpito, / io non colgo nel segno ma segno / ciò che colgo, baro, / scelgo il mio centro dopo il tiro / e come con un’arma difettosa / di cui conosco ormai / lo scarto, adesso / miro alla mira», Valerio Magrelli, da “Rosebud”).

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