Esposizioni in tempi virtuali

«[…] Ho esposto una cabina Photomatic (una di quelle cabine per fototessere che si trovano nelle grandi città) ed una scritta in quattro lingue che incitava il visitatore a lasciare una traccia fotografica del proprio passaggio. Io mi sono limitato ad innescare il processo facendo la prima photostrip, il giorno dell’inaugurazione; poi non sono più intervenuto. Alla fine dell’esposizione le strip accumulate erano oltre 6000».
“Esposizione in tempo reale N. 4. Lascia sulle pareti una traccia fotografica del tuo passaggio”, Padiglione Italia della 36° Biennale di Venezia 1972.

Alcuni critici, parlando di Esposizione in tempo reale di Franco Vaccari molti anni dopo, ne hanno sottolineato la capacità profetica rispetto all’avvento della rete e dei social e all’esibizione di sé di massa. L’idea, anche se un po’ compressa dalla cronaca del giorno, è sensata, non nel senso che Vaccari prevedesse i social o Instagram, ma nel senso che la sua opera rappresentava molto bene uno spirito del tempo, gli anni ’70, erede a sua volta di una scia molto lunga: l’idea che la distinzione tra arte e vita, o autore e fruitore (o mente e corpo, o borghesia e proletariato e via discorrendo), dovesse essere superata causa doverosa fine degli steccati, l’idea di accesso libero, la disintermediazione. È la linea principale, modernista, del Novecento, cui peraltro se ne oppose anche una minoritaria e classicista. Non è forse un caso che un’incarnazione di questo stesso spirito, in chiave libertaria e freak, trasportato nella California hippie e tecnologica degli anni ‘70 producesse l’invenzione del personal computer e della rete come tecnologia leggera, alternativa, capace di connettere e di bypassare il Potere Centrale attraverso un micropotere diffuso.

Così nell’opera di Vaccari non c’è un oggetto che il pubblico debba guardare “passivamente” (orrore!): l’opera contenente - di cui Vaccari è autore - è semmai il pubblico stesso che fa funzionare l’opera contenuta nel momento di farla. Volendo vedere meglio, in Esposizione non c’è elogio, presa di posizione pro e nemmeno contro: l’operazione è valida perché è una fedele ancorché metaforica rappresentazione del processo. Sono semmai gli autori/soggetti dell’opera contenuta che gestiscono il loro rapporto con la macchina, chi ridendo, chi stando serio, chi spogliandosi nudo e insomma esercitando tutti i se-dicenti atti liberi che puoi esercitare dentro un set pre-programmato di regole: la fotocamera, il suo illusionismo e le sue leggi ottiche, l’antico marchingegno chiamato camera obscura da cui in parte deriva, la prospettiva rinascimentale che vi è incamerata e l’idea di spazio omogeneo, l’autoritratto meccanico, la cabina/camera oscura in cui nessuno ti vede, il museo in cui accade tutto questo, il contesto di provenienza dell’opera e dei soggetti in cui accade il museo ecc ecc.. Un set che, volendo, potremmo anche chiamare vita. Non è poi molto diverso entrare in un ipermercato e vagare “libero” tra le corsie. Nello specifico, Foucault forse parlerebbe del passaggio dalle società di disciplina alle società di controllo, in cui il potere non si esercita includendo in istituzioni, ma controllando - o auto-controllando - il libero movimento dentro dispositivi mentali e sociali più larghi.

Col senno di poi, noi di quell’utopia iniziamo anche a vedere i rischi: il famoso “la trasmissione la fate voi” di Funari era solo l’antipasto. La disintermediazione e il medium molti-a-molti comporta come conseguenza anche l’uno vale uno, il neo-tribalismo, il ritorno massiccio di elementi mitici dentro la cultura ultra-tecnologica e altre meraviglie. Che poi è tutto da vedere che sia meglio o peggio di quanto c’era prima. È diverso. Ma perché?

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