I mondi o l’errore del solipsismo

Non possiamo non percepire il mondo che dal nostro punto di vista tuttavia ritenendolo centrale; ma questa evidenza della propria centralità che ognuno prova per sé non è che il risultato del nostro essere da sempre il centro esatto di tutte le nostre percezioni attuali, di quelle che si affollano come continuo e perfino lacerante affiorare di ricordi gioiosi e dolorosi del passato e infine dell’incessante sussurrare segreto dell’io, sempre identico a se stesso da che possiamo ricordare fino a oggi (poiché l’io è in sé già tutto formato e non muta di una virgola da quando è emerso dal buio splendore dell’infanzia fino alla morte: non può mutare poiché non è, nient’altro c’è che il punto vuoto da cui vedi e parli). Il risultato è che noi siamo sempre al margine dell’altro e l’altro, reciprocamente, è sempre al nostro margine. Infiniti centri, infiniti margini. Sappiamo per averci ragionato (ma prima ancora: perché proveniamo da lì, ne siamo fatti, siamo ancora dentro quel tessuto di mondo, ma l’abbiamo dimenticato) che anche laggiù, dietro quegli sguardi che non siamo noi, minuto per minuto c’è vita e percezione come in noi, ma questo sapere non ci tocca e anzi ci pare, pensandoci, quasi assurdo, un argomento ragionevole ma che non sentiamo affatto; sentiamo invece la nostra centralità, che immediatamente esclude l’ovvia centralità degli altri ognuno per se stesso, che essi evidentemente - perché lo deduciamo dai fatti - devono sentire. Solo a volte, per un istante, magari per un incrocio di sguardi o di presenze mentre camminiamo e qualcuno ci viene incontro, ecco è vicinissimo e poi ci supera, in quel frammezzo congelato come tra animali guardinghi - sei il mio pasto o la mia morte? - la reciprocità del sentire smette di essere un sapere e diventa percezione: per un istante siamo in mezzo, in un nulla di determinazione che ci fa sentire come decentrati, dissociati da noi stessi. Altre volte accade quando guardiamo la fotografia di una persona sconosciuta, ne immaginiamo fulmineamente la vita e ne riceviamo la ferita (il punctum di cui parla Barthes ne “La camera chiara”). Altre volte ancora è un frammento di conversazione ascoltata e subito perduta nella fiumana di voci che ci sbalza e ci proietta proprio lì, dietro i suoi occhi e di colpo, ma per pochissimo, vediamo come potremmo vedere se non fossimo noi ma lui, vediamo che anche lui vede da un centro e cioè vede noi come margine, al bordo della visione, così che per un istante noi stessi siamo scalzati dal nostro centro e diventiamo il nostro stesso margine e in quell’istante, che non dura, sappiamo che anche lì si è svolta una storia e allora vorremmo risalire ai particolari, rivedere magari un fiume tra gli alberi, una camera d’albergo, un armadio, i vestiti, le fotografie, il pettine sulla mensola, sapere la verità, tutta la verità finalmente.

Using Format