Disfunzionare le fotografie

Chiedersi come funziona una fotografia è molto diverso da chiedersi quando funziona.
In un caso si è consapevoli che tutte le fotografie “funzionano”, nel modo in cui funzionano, nell’altro si ritiene che una fotografia funzioni e un’altra no.

L’idea che una fotografia funzioni e un’altra no dipende dal presupposto che si possa farla funzionare in base a uno scopo che le si attribuisce, cioè che la si possa controllare in base a delle regole e a una grammatica che dall’esterno la sottomettano a un’intenzione, a un “voler dire” proprio del suo autore.

Si tratta delle regole, si dice, per “guidare lo sguardo”, proprio come se fosse una pecora da portare nel recinto.

Da dove emergerebbe questa grammatica, queste regole, ad esempio le regole della composizione che “fanno sì che un’immagine funzioni bene”? La risposta è: dalla natura, sono regola naturali della percezione.

Anche le mie gambe sono naturali, ma purtroppo non mi basta camminare per fare arte. Per lo meno devo essere Roberto Bolle, o Richard Long che usava i piedi per lasciare una traccia nel prato. Di più: se “la composizione che funziona è naturale” possiamo dedurne facilmente che “la composizione che funziona non può essere arte”, altrimenti anche il mio gatto sarebbe un artista.

Del resto, come sosteneva Raoul Hausmann: «Si può essere artisti-fotografi solo lavorando contro la fotografia, producendo immagini che permettono di combattere l’atteggiamento compulsivo dell’appropriazione estetica».

Non avendo a che fare con l’arte, che non ha uno scopo, l’idea che si possa controllare un’immagine in base a delle regole e a una grammatica che dall’esterno la sottomettano a un’intezione, a un voler dire proprio del suo autore, deve aver a che fare con altro, cioè con un presupposto di questo presupposto, che in realtà è semplice da individuare: una fotografia che “funziona” e “arriva” in base a delle regole è una fotografia che avrà successo.

Quindi le “regole per far funzionare una fotografia” sono regole del successo di una fotografia: non ne descrivono davvero il funzionamento bensì prescrivono un funzionamento alterato in base alle intenzioni coscienti dell’autore che infine si riassumono in “avere successo sfruttando la capacità delle fotografie di intromettersi nella psiche dell’osservatore e di manipolarlo”.

Quale abisso di noia di “belle immagini forti che funzionano secondo le regole e il gusto del tempo” e che “emozionano lo spettatore” si può produrre adottando un simile atteggiamento?

E soprattutto: come se ne esce? Ipotesi: smettendola di voler far funzionare una foto e semmai facendola disfunzionare, in modo da far emergere non cosa vuol dire il suo autore (cosa mai vorrà dire, coscientemente? Ma le solite cose sentite un milione di volte, tutte uguali, uno sprofondo di stronzate e banalità), ma cosa vuol dire lei, proprio quella fotografia, cosa intende, cosa vuole da noi. Cioè non con quale intenzione l’hai scattata tu, ma quel intenzione porta con sé lei. Magari qualcosa di inatteso potrebbe affacciarsi finalmente.

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