I fatti incerti

I malli di noce frantumati a terra, pestati
dai piedi dei passanti
che esalano quell’odore vegetale
umido di carcassa verde.

Il lascito di un cane dalla forma
così tortuosa da sembrare un tubero
esotico o una radice disseccata.

Un uomo che indossa un contorto busto ortopedico
e si impettisce mentre cammina
c’è una donna con lui;
appoggia le mani alla struttura di metallo
che lo regge, non vuole sembrare menomato
ma lo vedi che qualcosa in lui si vergogna.

Una ragazza con il volto rifatto, le sue ossa
sono state resecate, spostate
e mentre ti parla ne riconosci la voce ma non ti spieghi
come possa uscire da quel sorriso sconosciuto.

Una fioritura di t-shirt arancioni ai giardini
gli studenti bambini in libera uscita sono ovunque
anche se un uomo di passaggio ha per caso
una maglia dello stesso colore
forse scatenerà timor panico senza volerlo.

La temperatura è nelle medie stagionali, gradevole
per le nostre abitudini.

Oggi è un giorno qualsiasi e per quanto tu proceda
con la massima lentezza non sai proprio
come distinguere le apparizioni che contano.
Come decidere il catalogo e assegnare le prime file
proprio non lo capisci. Distribuisci i posti a casaccio?
E forse non dipende nemmeno dalla cancellata
di guglie acuminate che circonda questa bolla di mondo
come hai sempre pensato.

2007


Dall’altro lato

chi avrà deciso la disposizione del tappeto di robinie sulle pendici dei colli?
e le quattro vette distanti pochi metri avranno ognuna un nome a difenderle dalla sera che scende
e le vallette e i massi erratici e sopra quale ordine di grandezza e persino i sassi
e le foglie? dei cinque condomini costruiti nell’ansa del torrente al fondo della conca la sigla riposa
in un libro nell’ufficio del catasto

così quando chiudevo gli occhi vedevo macchie di colore giallo o verde fosforescente
sbocciare sopra un fondo cobalto se il sole intermittente forzava le palpebre
(un fatto irrilevante se ci fosse una regola a distinguere ciò che è giusto rimanga)

a turno guardavamo i riflessi nella lamiera i lampi dalle cromature rottami a ossidare
nei cimiteri il gas alla bocca del tubo corrodeva la gola rivoltava - eppure mio fratello
ne aspirava l’ebbrezza - dal sonno sui sedili tornavamo storditi la guancia un lago
la prima volta che svoltata l’ultima curva riconobbi la nostra casa nel viale avevo forse quattr’anni

tornando mio padre sorrideva deposta la giacca dell’ufficio d’estate in canottiera
quando tagliava l’anguria a mollo per due ore nella vasca una goccia da quell’urna fresca
era una feria ma come brillava a sera la sconfitta nelle sue minuzie furiose quella tenacia
rovinosa a scalare un prodigio sghembo il suo inutile tesoro di abilità

la Coda seminava una pioggia di ipotesi come spore - nascevamo
dai padri operosi dalle madri feroci a mazzi pieni germinavano i prati dei sobborghi di case
e di balconi di aquiloni rincorsi nei giorni festivi di cortili (e padri gentili secondo i costumi nuovi) pranzi sui sedili una volta ci colse il temporale vicino al Lago Maggiore la tovaglia i panini
(chi lavava e rilavava la seicento ai bordi delle rogge chi salpava su navi centimetrate dentro mari profumati di cognac) dal cielo infinito proiezioni di futuro in forma di figli e cucine arredate sedie
con zampe cromate sogni di dopoguerra - in una lettera leggevo siamo io e te amor mio la terra promessa era un numero civico preso in affitto nei lunghi viali

l’ombra dagli angoli nascosti dalla foglia ammutolita spariva nei corridoi nei tinelli dei parenti
nei rotocalchi raccolta in pozzanghere nel muschio tra le pietre incastonata in forma di serpe
che dava il tormento negli oratori nelle sere d’estate i figli degli immigrati cantavano sulle biciclette
ci faremo largo tutto sarà dimenticato

e poi il giorno si è girato dentro il giorno incastonato il serpente infinito ha morso ancora
il nuovo frutto la vita indifesa sfolgora tremante mentre comincia la discesa di nuovo
la scena mancante del contrappasso di nuovo stritolato ecco il finale adatto

23.5.2007

-> Summer of ‘69


L’incubo del narratore

La sovrabbondante, perturbante, disperata bellezza di ciò che sorge e tramonta.
Ad esempio, camminare molto, molto lentamente lungo un’immaginaria linea retta nel corso affollato, mentre il mondo ti viene incontro. E ciò che viene incontro compare dal nulla nel tuo orizzonte e procede da ogni punto intorno, sbocciando, svanendo.
Visi bellissimi e insignificanti, frammenti di camminate, brani di conversazione che ascolti un istante, da ogni punto suoni che sorgono e svaniscono, tracce di corpi che caracollano attraversando lo spazio, parole pronunciate e sospese, toni di voce nel buio illuminato a giorno, “la superficie divenuta calma in cui fluttuano determinazioni slegate, come membra sparse, teste decollate, braccia prive di spalle, occhi senza fronte”.
È quello che metterò nel sottotetto.
Il tempo di attesa non è che.
L’amico di Giuseppe ci ha.
Se vuoi lo chiamo però.
Trovato un appartamento che.
L’infinita sovrabbondanza di ciò che appare, perfetto nella superficie, nelle modulazioni che presenta, le delicate piegature di carne da cui il mondo esplode e tramonta. Ogni cosa procede verso di te. Puoi fermare uno a uno, nel mezzo del corso, osservare il suo viso, ogni elemento fino alla curvatura della palpebra, alla peluria, alle pieghe più riservate, allo scintillio acquoso dell’occhio. Oppure potresti fermare ogni persona e chiederle cosa stavi dicendo? e farla proseguire, spiegare, farti dire, farti narrare la storia, risalire a una camera, un armadio, i vestiti, le fotografie, il pettine sulla mensola, farti dire la verità, fartela dire del tutto, finalmente.
A metà del corso quattro indios suonano bach con fisarmonica e violino. Sulla soglia una nuvola invisibile e assordante di passeri nascosti tra le foglie.

-> Illuminati

4.1.2005


Punto fermo

Se penso che un tempo la mia opinione ferma, avendo forse in odio il figlio che sono, o l’esser genitore, e volendone fuggire il destino a rotta di collo per gettarmi in una vita diversa e lontanissima da quella vissuta nell’infanzia e da una famiglia come tante

immagina: padre madre fratello, impiego fisso, lei casalinga amatissima, quarto piano al Lorenteggio, lui le notti nel ripostiglio a limare i bei sogni del dopoguerra infilati in bottiglia in forma di vascello fantasma, un’infinita abilità nelle mani ma sprecata, inutile come l’infernale diurno passacarte e d’estate la festa: un’anguria a freddare nella vasca, senza contare le sterminate sere nel tinello buono al lume della televisione e insomma, quanto t’odiavo e t’amavo allora padre mio, poi la tristezza sempre accanto e il fucile puntato degli sguardi altrui, il tallone del mondo sempre sulla schiena

e insomma volendo fuggire a capofitto verso una vita che immaginavo allora libera e senza lacci che fossero d’amore o di doveri e impieghi, capuffici, noia e non so dire con esattezza qual altra fantasia mi agitasse, e quale spavento e nausea, quale desiderio fortissimo e adolescente lungamente sviato: respirare, finalmente

ecco se penso che il mio intendimento fu in piena coerenza di non volerne di figli, per nessun motivo e anzi una volta, molto tempo dopo, quando pareva che l’errore un figlio l’avesse chiamato nostro malgrado io caddi stecchito proprio come l’adolescente che non ero più restando a fissare l’aria per tutti i giorni necessari alla smentita, e mi portavo inebetito qua e là riuscendo soltanto a mormorare qualcosa come e adesso? terrorizzato com’ero da quel “per sempre” che il divenire padre porta con sé e non perché la mia vita fosse poi come l’avevo sognata (anzi che te ne fai della libertà se ci sei nato a capo chino? ormai convinto com’ero di esser tagliato da un ceppo fradicio e inadatto al fuoco)

se penso che tutto questo accadeva in un tempo nemmeno lontano da una lunga, luminosa sera in cui tu issato sul mio ginocchio come sull’albero maestro chiacchieri la sola frase che sai, dentro un sorriso in cui non si distinguono carne e cielo e la tua mano non s’è ancora chiusa contro di me, come farà, e non conosci ancora questo ripostiglio di parole non migliore delle quattro pareti di mio padre, ora finalmente posso ridere di me e della smaccata, felice verità: quanto coglione ero, non l’immaginavo nemmeno. Quanto lo sono ora, non m’importa più.

21.7.2008

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