Dall’altro lato

chi avrà deciso la disposizione del tappeto di robinie sulle pendici dei colli?
e le quattro vette distanti pochi metri avranno ognuna un nome a difenderle dalla sera che scende
e le vallette e i massi erratici e sopra quale ordine di grandezza e persino i sassi
e le foglie? dei cinque condomini costruiti nell’ansa del torrente al fondo della conca la sigla riposa
in un libro nell’ufficio del catasto

così quando chiudevo gli occhi vedevo macchie di colore giallo o verde fosforescente
sbocciare sopra un fondo cobalto se il sole intermittente forzava le palpebre
(un fatto irrilevante se ci fosse una regola a distinguere ciò che è giusto rimanga)

a turno guardavamo i riflessi nella lamiera i lampi dalle cromature rottami a ossidare
nei cimiteri il gas alla bocca del tubo corrodeva la gola rivoltava - eppure mio fratello
ne aspirava l’ebbrezza - dal sonno sui sedili tornavamo storditi la guancia un lago
la prima volta che svoltata l’ultima curva riconobbi la nostra casa nel viale avevo forse quattr’anni

tornando mio padre sorrideva deposta la giacca dell’ufficio d’estate in canottiera
quando tagliava l’anguria a mollo per due ore nella vasca una goccia da quell’urna fresca
era una feria ma come brillava a sera la sconfitta nelle sue minuzie furiose quella tenacia
rovinosa a scalare un prodigio sghembo il suo inutile tesoro di abilità

la Coda seminava una pioggia di ipotesi come spore - nascevamo
dai padri operosi dalle madri feroci a mazzi pieni germinavano i prati dei sobborghi di case
e di balconi di aquiloni rincorsi nei giorni festivi di cortili (e padri gentili secondo i costumi nuovi) pranzi sui sedili una volta ci colse il temporale vicino al Lago Maggiore la tovaglia i panini
(chi lavava e rilavava la seicento ai bordi delle rogge chi salpava su navi centimetrate dentro mari profumati di cognac) dal cielo infinito proiezioni di futuro in forma di figli e cucine arredate sedie
con zampe cromate sogni di dopoguerra - in una lettera leggevo siamo io e te amor mio la terra promessa era un numero civico preso in affitto nei lunghi viali

l’ombra dagli angoli nascosti dalla foglia ammutolita spariva nei corridoi nei tinelli dei parenti
nei rotocalchi raccolta in pozzanghere nel muschio tra le pietre incastonata in forma di serpe
che dava il tormento negli oratori nelle sere d’estate i figli degli immigrati cantavano sulle biciclette
ci faremo largo tutto sarà dimenticato

e poi il giorno si è girato dentro il giorno incastonato il serpente infinito ha morso ancora
il nuovo frutto la vita indifesa sfolgora tremante mentre comincia la discesa di nuovo
la scena mancante del contrappasso di nuovo stritolato ecco il finale adatto

23.5.2007

-> Summer of ‘69

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