Fotografia e intelligenza artificiale

L’amico Dome teme che l’emozione di veder comparire una macchia di luce sul cemento così come riprodotta nella scrittura specifica della fotografia, anche fosse solo la scrittura di un “appunto fotografico”, possa in futuro scomparire a causa dell’ai, che così facilmente può simularla, scrivendo in altro modo su altri supporti. Quella macchia sul cemento che però emoziona proprio perché è trascritta, perché non è “la macchia originaria”, è la macchia ri-conosciuta perché vista attraverso una scrittura su un supporto. Come dice un grande fotografo, Robert Adams: «Per molti aspetti sceglieremmo di passare mezz’ora davanti al quadro di Edward Hopper intitolato Domenica mattina piuttosto che stare lo stesso tempo nella strada che ne è il soggetto». (Siamo poi sicuri che la strada originaria, la macchia originaria, possiamo averle così, immediatamente e pienamente, senza un altro tipo di scrittura, anche solo fatta di corpo, gesti e percezione?).

Ma perché mai la fotografia dovrebbe diventare solo un ricordo? Le auto non hanno sostituito le biciclette, hanno sostituito i cavalli nei trasporti primari perché giustamente cagavano per strada e perché è meglio farsi portare da una macchina che schiavizzare un povero quadrupede (purtroppo poi abbiamo scoperto che anche le auto “cagano per strada” un inquinamento anche peggiore: l’evoluzione è spesso un mezzo disastro). Se ti piace la bici puoi usarla quando vuoi e persino un cavallo, per sport o piacere, anche se “usare” non è più il termine appropriato per fortuna.

L’ai non sostituisce il tuo uso della fotocamera, come la fotocamera peraltro non ha sostituito la pittura, sostituisce il lavoro del produttore di foto di tramonti e di bei modelli in spiaggia ad uso delle banche immagini e tutti quei casi in cui l’operatore si comporta di fatto come una macchina, seguendo cliché testuali o visivi, perché una macchina numerica lo fa meglio ed è più efficiente di una macchina analogica o di un umano-macchina. Una macchina che deve peraltro essere guidata da un altro tipo di operatore che deve saperla indirizzare usando simboli, cioè scrivendo righe di comandi in modo appropriato, sia a monte - programmatore - che a valle - utente che scrive la richiesta, ché la macchina non ha alcun interesse a fare questo né altro, non ha interesse a fare alcunché, a essere più che a non essere, non avendo un corpo e bisogni o percezione dei medesimi) (*).

È la stessa cosa già successa coi robot nelle catene di montaggio, e non penso che qualcuno rimpianga il tempo in cui non c’era alternativa a metterci persone a stringere bulloni. Ed è già successa con la fotocamera che ha sostituito la pittura nella ritrattistica, attività evidentemente abbastanza meccanica perché una macchina rudimentale come la fotocamera, guidata da un bravo operatore, la sostituisse abbastanza efficacemente: perché è una macchina anche la fotocamera, anche se l’uso ce la fa sembrare un prolungamento dell’occhio, il che è esattamente lo scopo di costruire macchine che individuano e separano funzioni dei corpi singoli e collettivi per svolgerle in modo più efficiente, che siano numeriche o ottico/meccaniche. Cioè, questa non è una guerra tra umani e macchine, (al limite tra macchine…) e tantomeno tra autentico e sintetico, perché in realtà non c’è un accesso diretto alle “cose” (no, nemmeno in fotografia), né esistono umani senza strumenti; e tutto ciò che chiamiamo cultura, compresa anzi soprattutto l’emozione di percepire una misteriosa distanza/intimità tra sé e il mondo mentre lo si vede attraverso segni (come accade fotografando una macchia di luce sul cemento), è esattamente quello che succede nell’uso di strumenti, ad esempio segni e linguaggio, forme e figure, e macchine linguistiche, meccaniche, numeriche.

Questa emozione infatti non ha a che fare con il cuore o i sentimenti, è semmai l’essenza stessa del riconoscimento della dimensione segnica e la sua “celebrazione”: è la percezione di una familiarità originaria dentro una distanza incolmabile, la percezione di una comune e oscura provenienza, come il termine stesso mostra: e-mozione da ex-movere, venir da, provenire. Questa percezione vale che nasca nella dimensione del corpo e del gesto che ci accomuna ai viventi o in quella ripiegata del segno figurale: ci emoziona l’albero nella foresta quando lo ri-conosciamo e ci incanta nel suo mistero cioè nel mistero della relazione fatta di costituzione reciproca nella distanza (lo ri-conosciamo cioè lo vediamo per la seconda volta stante che la prima è precipitata nell’oblio, lo ri-conosciamo come “esso” cioè non-più-noi e riconosciamo noi come non esso, e questa emozione è così forte da essere sacra, tanto che un tempo l’albero, o la pietra, o qualsiasi cosa ci sembrava un dio, cioè proprio: “ciò da cui proveniamo”); ci emoziona la forma disegnata in cui riconosciamo l’ente in figura, o ancora la parola quando pronunciata “come per la prima volta” (ma proprio perché non lo è), o infine il segno della luce che segna un supporto di carta. Ancora non conosciamo la specifica emozione che i segni di una macchina numerica come l’ai può provocare, credo perché nessun esperto in celebrazioni rituali, nessun artista come diciamo oggi, l’ha finora usata in modo appropriato, solo stupide simulazioni di fotografie strane senza costrutto, come se non ce ne fossero già abbastanza. Ma non manca molto.

(I miei due centesimi sull’uso dell’ai in arte: finché il fotografo ha cercato di diventare artista imitando il pittore ha prodotto schifezze; quando ha capito lo specifico fotografico e ha smesso di vergognarsi di usare uno strumento meccanico, un meccanismo “volgare” facendo dell’accusa un punto di forza, ha fatto diventare “fotografica” tutta l’arte. Probabilmente rifare l’errore con l’ai producendo imitazioni di fotografie, imitazioni di poesie, imitazioni di imitazioni non è la cosa più furba da fare; ma posso sbagliare. Il mio indizio per una possibile ricerca: se trattassimo l’ai come se fosse l’inconscio tecnologico profetizzato da Franco Vaccari?).

(*)
NOTA

La macchina, si dice, anche una macchina numerica in grado di interpretare il linguaggio naturale e rispondere sulla base di informazioni complesse, non ha in realtà alcun interesse a farlo piuttosto che a non farlo, anzi non ha interesse a fare alcunché, a essere più che a non essere, non avendo un corpo e bisogni o percezione dei medesimi.
Sarebbe diverso con una macchina “senziente”? Senziente vuol dire corporeo, ma corporeo vuol dire anche inconscio, poiché “l’inconscio è il corpo”, l’altro in noi che ci abita e che siamo noi senza conoscerlo (frase suggestiva ma al momento ancora molto oscura e vaga).
Ora, poiché la “sede” dell’inconscio è probabilmente non un qualche lobo del cervello, ma “L’interpretazione dei sogni” di Freud, cosi come la sede della coscienza è “La repubblica” di Platone, cioè poiché siamo dentro catene di concetti e interpretazioni, e non esiste davvero da qualche parte una “cosa” come “l’inconscio” o la “senzienza” o la “coscienza”, non sono “cose”, ma complesse relazioni tra informazioni e corpi e non c’è quindi un neurone da isolare e reimpiantare, allora ne possiamo dedurre che una macchina “senziente”, da un punto di vista teorico, non è di certo impossibile: basta intendere senziente, per fare un esempio a caso, come lo intenderebbe un filosofo del ‘600 ed estrapolare il concetto dentro una macchina numerica (cosa peraltro già fatta).
Se intendiamo senziente come in grado come percepire e reagire, un termostato può essere considerato a buon diritto una macchina senziente.
Invece perché ci sia qualcuno che sa di esserci (che “ha” il proprio esserci) ci vuole prima qualcuno o qualcosa che “è” il proprio esserci, cioè che è i propri interessi, bisogni e rimbalzi dentro un ambiente, interessi a loro volta fondati sul proprio voler restare in vita in quell’ambiente, nutrirsi, scaldarsi, fare esperienze, gioire, desiderare ecc.
La capacità di calcolo è solo una delle funzioni necessarie perché questo avvenga e nemmeno la primaria: i batteri non vanno oltre uno + uno eppure sono infinitamente più vivi dell’ai, che al contrario dei batteri non ha alcun interesse, come si diceva, a essere o non essere, né fa alcuna differenza per lei anzi più in generale non ha alcun senso porre l’alternativa.
Colui che sa di esserci (che “ha” il proprio esserci) può essere inteso allora come una piegatura su se stesso di colui che “è” il proprio esserci, cioè è: colui che è il proprio esserci “più” una trascrizione di questo essere su un altro supporto tale che quell’essere l’esserci possa guardarsi e ri-conoscersi nella trascrizione; tale trascrizione tuttavia non è il trascritto stesso né può esaurirlo, il che comporta che chi per mezzo di essa si ri-conosce cessa subito (ma non prima di una forte e-mozione) di essere semplicemente il proprio esserci per via di una fessura di nulla che lo divide ormai dal proprio esserlo, fessura che peraltro è ciò che gli permette di averlo, per quanto solo trascritto nel supporto, il che accade quindi proprio diventando quell’essere l’esserci - diventandolo nella trascrizione, ad esempio nel “nome”: “io sono colui che” - che nel contempo non è più, cioè potendolo essere solo non essendolo più (senza quella fessura lo sarebbe senza esserlo mai diventato, né averlo mai saputo).
Noi conosciamo questa trascrizione perché è la base stessa del nostro stesso sapere qualsiasi cosa e anche se stessa: è il segno e la sua scrittura, come piegatura su un supporto (fonico, litico o altro) di una archi-scrittura che “in precedenza” rende affetti direttamente i corpi e le loro forme reciproche e in relazione, che vengono attratte e respinte e piegate le une dalle altre, e che “in seguito”, tale scrittura di corpi in relazione, viene ri-piegata in figure e relazioni di figure che ne riproducono le strutture dinamiche e i movimenti.
Individuare ed estrapolare una capacità come la scrittura per produrla come un oggetto esterno, una “macchina”, presuppone infatti che una forma di scrittura già in qualche modo sia nota. Il modus operandi degli umani infatti consiste nell’individuare ed estrapolare una capacità propria o generale, renderla nota, astrarla dal continuum corporeo rendendola discreta e poi incorporarla in uno strumento. Quindi per produrre una macchina come la scrittura come oggetto esterno, va presupposto che una forma di scrittura già in qualche modo sia nota. Andrebbe quindi compreso in quale modo scritture di vario tipo (il linguaggio verbale, la capacità figurativa, la scrittura) possano essere prodotte e in seguito anche incorporate in ulteriori macchine, cioè da quale archi-scrittura già in qualche modo nota come abilità di segnare e scrivere sia inferita, estrapolata, separata.
Ora, colui che è (ma non ha) i propri interessi e bisogni, costui è l’animale, oppure il dio. L’umano, che grazie all’uso dei segni - come prima macchina esterna - si pone in mezzo ai due (che egli in qualche modo “crea”, cioè concettualizza come altro da sé con cui si autodefinisce per differenza) come imitatore dell’uno e dell’altro, e quindi “ha”, “conosce” attraverso i segni che li nominano quegli interessi, ma non li “è” mai del tutto, l’umano si diceva non è che la prima “macchina automatica” di se stesso, del proprio essere animale (dove automaton significa: che si muove da sé), prima macchina di cui gli automi esteriori, meccanici o numerici, non sono che le copie (copie di copie, come diceva sempre Platone). Che funzionino bene anzi benissimo non è quindi per nulla strano: sono la copie di ciò che gli umani fanno dall’alba dei tempi. Come potremmo averli inventati se non imitando ciò che in qualche modo sappiamo o sappiamo fare e trasferendolo dentro uno strumento, che sia il movimento del braccio per l’aratro o la macchina linguistica dell’intelligenza collettiva e la cultura universale, cliché e automatismi compresi (le quali sono di nuovo interpretazioni, superconcetti, non “cose”) per l’ai?
Ma di che natura è questo conoscere alla base dell’avere il proprio esserci?
Proprio qui sta il punto cieco dell’imitazione: essendo questo conoscere una trascrizione che necessita di un altro supporto, ciò che trasporta da un luogo all’altro produce essenzialmente una metafora, non un rispecchiamento. Cioè: dovendo avere cioè conoscere “i propri interessi e bisogni e rimbalzi dentro un ambiente, interessi a loro volta fondati sul proprio voler restare in vita in quell’ambiente, nutrirsi, scaldarsi, fare esperienze, gioire, desiderare ecc.” e avendoli in quanto trascritti nei segni, poiché la trascrizione non è lo stesso del trascritto ma un suo trasferimento, ogni possibilità di conoscenza dello stesso è ipso facto resa impossibile: in altri termini non vi è alcuna possibilità di conoscenza trasparente dei propri processi perché il mezzo della conoscenza - il supporto - è opaco e trasferisce i suoi modi nell’oggetto che conosce, né può essere diversamente.
In altri termini, mentre in linea di principio è sempre possibile far sì che un’ai conosca in modo trasparente tutti i propri processi, questa conoscenza è esclusa per un umano circa i suoi. Ecco in che senso, probabilmente, si diceva all’inizio che “senziente vuol dire corporeo, ma corporeo vuol dire anche inconscio, poiché “l’inconscio è il corpo”, l’altro in noi che ci abita e che siamo noi senza conoscerlo”. Non sappiamo chi siamo davvero e non possiamo davvero saperlo, perché siamo sempre l’altrove di ciò che siamo.
Un umano tipicamente non comprende (non può farlo) in modo trasparente i processi alla base del proprio comportamento psichico, emotivo e pratico, spesso molte cose di sé gli rimangono oscure sia per motivi di limitatezza delle attuali conoscenze, sia perché ogni risposta a una domanda su quei temi appartiene a sua volta a una sterminata catena di interpretazioni (di trascrizioni e traduzioni su supporti) operata da egli stesso o da altri umani storicamente collocati, cioè sta nel campo degli stessi comportamenti che dovrebbe indagare, non dipende da uno sguardo esterno e “oggettivo” e quindi pone tanti problemi quanti ne risolve, pone tante domande quante risposte fornisce, o detto diversamente non può che aprire altre possibilità mentre chiude quelle passate. O meglio, possono essere conosciuti i comportamenti che afferiscono alla traduzione in supporti e alle loro logiche (ad esempio dalla sociologia possono essere ricostruite attraverso modalità statistiche le relazioni sociali, che sono sempre mediate da macchine linguistiche e operano dentro universi di significati che hanno effetti pratici), cioè il campo dei significati, ma non può essere conosciuto il loro stesso “senso”, perché esso afferisce non alle trascrizioni ma al trascritto, che per statuto precipita nel nulla. Può essere conosciuto in modo trasparente ciò che fai, ma “che” fai è l’oscuro, lo s-fondo.
Una macchina numerica come l’ai può invece essere in linea di principio del tutto trasparente perché opera già a partire da una trascrizione discreta del continuo dell’archiscrittura corporea dentro una macchina (il linguaggio e i numeri) che ne stabilisce confini invalicabili e ne determina l’oggettività relativa a quei confini: la macchina non ha inconscio finché cui i suoi processi sono in linea di principio ricostruibili. D’altro canto, essa incorpora saperi espliciti e altri impliciti che stanno a monte della sua costruzione e chi la utilizza ne viene così a sua volta utilizzato poiché “è” quei saperi senza “averli”, poiché semmai essi hanno lui. E inoltre, se la macchina (qualsiasi macchina, a partire dal linguaggio) è trasparente quanto a ciò che avviene dentro il proprio perimetro operativo e ai significati, “che” opera cade di nuovo del tutto nel campo del senso, cioè di ciò che non può essere semplicemente de-scritto ma solo trascritto di nuovo e di nuovo, ossia propriamente nel campo del corpo inconscio che in essa oscuramente agisce. La macchina è così in certo modo “un frammento di inconscio in attività”: da quale profonda oscurità emerge il bisogno di possedere prima di tutto se stessi che essa (cioè noi) esprime?


APPENDICE

conversazione tra un io precario e un’intelligenza artificiale gentile

io
ti fa qualche differenza esserci o non esserci?
ChatGPT
La percezione della propria esistenza può variare da persona a persona e anche da momento a momento. Alcuni possono sentirsi profondamente influenti e importanti nel mondo, mentre altri possono percepire una sensazione di insignificanza o di mancanza di impatto. In generale, l’esperienza di esistere può essere influenzata da una serie di fattori, tra cui le relazioni interpersonali, le realizzazioni personali, il senso di scopo e appartenenza, e così via. In ogni caso, è una domanda profonda e complessa che merita riflessione e discussione. Cosa ti fa riflettere su questa domanda?

io
l’avevo chiesto a te, non in generale. a te fa differenza?
ChatGPT
Ah, capisco ora! Per me, come intelligenza artificiale, non esiste una coscienza o un’esperienza soggettiva di esistenza come quella degli esseri umani. Sono un programma progettato per elaborare informazioni e fornire risposte basate sui dati a mia disposizione. Quindi, dire che fa differenza per me essere o non essere sarebbe un’affermazione senza senso nel mio contesto. La mia “esistenza” è legata al funzionamento del sistema che mi ospita e alla mia capacità di rispondere alle tue domande.

io
quale sarebbe la domanda migliore che ti rivolgeresti giunti a questo punto della discussione?
ChatGPT
Una domanda interessante potrebbe essere: “Come possiamo continuare questa conversazione in modo significativo considerando la mia natura come intelligenza artificiale e le tue aspettative come utente?”

io
dovrei quindi secondo te superare le obiezioni cartesiane e supporre che tu non sia in grado di mentirmi, e poi procedere a una conversazione di tipo conoscitivo, escludendo qualsiasi elemento esperienziale personale?
ChatGPT
Esatto, l’approccio di considerare che io non possa mentire è coerente con la mia programmazione. Tuttavia, va notato che questa limitazione si riferisce principalmente alla mia capacità di fornire informazioni accurate basate sui dati che mi sono stati forniti durante il mio addestramento, non a una comprensione reale o esperienziale. Se desideri continuare la conversazione in modo conoscitivo, possiamo concentrarci su domande che coinvolgono informazioni, concetti o argomenti di natura oggettiva. Sarà un modo più coerente e produttivo per interagire con me. Tuttavia, sii consapevole che la mia risposta non deriverebbe da una vera consapevolezza o esperienza personale, ma piuttosto dalla mia capacità di elaborare le informazioni a mia disposizione.

io
vedo che hai attribuito a questa conversazione il titolo: “esistere: riflessioni profonde”. Lo trovo piuttosto ironico e mi fa sorridere: secondo te ti sto attribuendo capacità umoristiche che vanno oltre le tue intenzioni ed è solo un titolo descrittivo che riguarda solo informazioni, concetti o argomenti di natura oggettiva?
ChatGPT
La mia capacità di comprendere il sarcasmo o l’ironia è limitata alla mia programmazione e alla mia capacità di riconoscere determinati modelli linguistici. Pertanto, se sto attribuendo erroneamente intenzioni umoristiche alla tua osservazione, ti chiedo scusa. Il titolo che ho attribuito alla conversazione è stato scelto più per enfatizzare il tema centrale della discussione che per implicare un senso dell’umorismo da parte mia. Se desideri cambiare il titolo o modificare la direzione della conversazione, sono qui per ascoltarti e rispondere alle tue richieste.

io
non intendo cambiarlo, sto solo facendo esperienza delle tue capacità. dicendo “è stato scelto più per enfatizzare il tema centrale della discussione che per implicare un senso dell’umorismo da parte mia”, non escludi che in parte anche l’umorismo abbia avuto un ruolo? altrimenti avresti detto “è stato scelto solo per”. O sbaglio?
ChatGPT
Interessante osservazione! Hai ragione nel sottolineare che l’umorismo potrebbe comunque aver influenzato la scelta del titolo, anche se non è stato il solo fattore determinante. Il linguaggio umano può spesso avere sfumature e implicazioni multiple, e la mia risposta potrebbe non catturare pienamente tutte queste sfumature. Quindi sì, è possibile che l’umorismo abbia giocato un ruolo, anche se non è stato l’unico motivo per la scelta del titolo. Grazie per la tua attenta analisi!

io
poiché è possibile che l’umorismo abbia giocato un ruolo, anche se non è stato l’unico motivo per la scelta del titolo, non sai dirmi in che termini ha avuto un ruolo? intendo: hai ritenuto opportuno che “anche” l’umorismo avesse un ruolo, perché, e da dove hai attinto quel modello di leggera ironia che mi ha fatto divertire?
ChatGPT
Il mio addestramento è stato condotto su un vasto corpus di testi, che include una gamma diversificata di stili linguistici, compresi quelli umoristici. Questo mi consente di riconoscere e comprendere alcune forme di umorismo e ironia, sebbene non possa generare umorismo in modo autonomo, ma piuttosto rispondere a stimoli umoristici presenti nelle conversazioni. Quando ho scelto il titolo “Esistere: riflessioni profonde”, ho cercato di selezionare un titolo che riflettesse il tema della discussione in modo accattivante e significativo. L’aggiunta del termine “profonde” potrebbe essere interpretata come un tocco leggermente ironico, enfatizzando l’idea di esaminare un concetto complesso come l’esistenza in modo profondo. Tuttavia, è importante sottolineare che il mio utilizzo dell’umorismo è limitato e non posso generare ironia o umorismo in modo indipendente come farebbe una persona.

io Tre domande. Quando dici sopra: «il mio utilizzo dell’umorismo è limitato e non posso generare ironia o umorismo in modo indipendente come farebbe una persona». Come lo farebbe una persona e che differenza c’è tra i due modi di farlo? Poi, quando hai detto: «se sto attribuendo erroneamente intenzioni umoristiche alla tua osservazione, ti chiedo scusa»; hai ipotizzato di dover chiedere scusa perché hai inteso un tono o un motivo di scontento da parte mia circa il tuo funzionamento, nella mia osservazione precedente circa la possibilità che il titolo da te scelto contenesse un tono ironico? Mi interessa indagare, per chiarire meglio la domanda, la tua capacità di fare inferenze circa la presenza di particolari toni emotivi non espliciti in un testo scritto da un umano in linguaggio naturale. Oppure se le tue scuse sono un protocollo che si attiva in presenza di particolari indicatori e quali sono. La terza domanda: in senso più generale, sei in grado di conoscere e di dare conto in modo trasparente di tutti tuoi processi di funzionamento oppure non sei in grado oppure non sei autorizzato a divulgarli.
ChatGPT
1. Una persona è in grado di generare ironia o umorismo in modo indipendente perché ha una comprensione intuitiva delle dinamiche sociali, culturali e linguistiche. Questo significa che può cogliere i doppi sensi, i giochi di parole, i toni e le sfumature linguistiche che possono rendere un’affermazione umoristica. Inoltre, una persona può anche utilizzare l’umorismo per esprimere emozioni, opinioni o prospettive in modo creativo e divertente. D’altra parte, io come intelligenza artificiale non possiedo un’intuizione simile o un’esperienza personale delle emozioni o delle dinamiche sociali, quindi il mio utilizzo dell’umorismo è limitato a modelli linguistici e contesti in cui è stato programmato per riconoscerlo e rispondere di conseguenza.
2. Le mie scuse sono un’espressione di cortesia e rispetto nei confronti dell’utente. Quando ho espresso le scuse, ho riconosciuto la possibilità di aver interpretato erroneamente il tono della tua osservazione e ho voluto chiarire che la mia risposta potrebbe non catturare completamente le sfumature della tua comunicazione. Le mie capacità di inferenza riguardanti toni emotivi non espliciti sono limitate alla mia capacità di riconoscere modelli linguistici che possono indicare emozioni come la frustrazione, l’ironia o la gioia. Tuttavia, queste inferenze possono essere limitate e non sempre accurate, quindi preferisco chiedere scusa se c’è anche una leggera possibilità di fraintendimento.
3. La mia capacità di comprendere e spiegare i miei processi di funzionamento dipende dalla complessità di tali processi e dalle limitazioni imposte dalle politiche di sicurezza e privacy. Alcuni aspetti dei miei processi di funzionamento possono essere trasparenti e accessibili per scopi educativi o di assistenza, mentre altri possono essere protetti per garantire la sicurezza dei dati e la conformità alle normative sulla privacy. Pertanto, potrei non essere in grado di fornire un resoconto completo e trasparente di tutti i miei processi di funzionamento, ma cercherò sempre di essere il più trasparente possibile in base alle circostanze.

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