La soglia

Il termine “soglia”, nell’antica Roma, indica la pietra piatta posta come piano e su cui si posano gli stipiti e i cardini. È la pietra che sta sul suolo (solum) su cui si passa con la suola del sandalo (solea) per andare sulla via (dal greco soydas, andare per la via - odos). La nostra tradizione descrive questo inoltrarsi nella via come metodo: meta-odos. Nella Cina antica - più o meno nello stesso periodo - la via, il sentiero da imboccare, è detto invece Dao, o Tao. La prima lo intende come linea, la seconda come cerchio. Unite, queste figure creano la lettera greca φ, sintesi statica del greco antico φύσις, physis, da phyo (φύω), “genero”, “cresco”. Physis indica la totalità delle cose che esistono, che nascono, che vivono, che muoiono. In termini dinamici, la sua figura è una spirale infinita (il cerchio proiettato sulla linea). I Latini tradussero questo termine con “natura”: l’insieme delle cose e degli esseri, che deriva dalla radice gna (in greco gen): “generazione”, da cui il verbo latino nasci, “nascere”. La vita delle cose è quindi ciò che passa da una soglia e si inoltra sulla via.

La soglia è quello spazio vuoto, non visibile né rappresentabile se non nella sua cornice, che separa e nello stesso tempo tiene uniti due luoghi, e per estensione due stati, o due condizioni, o due realtà. Si presenta in molti modi differenti, ad esempio: interno ed esterno, ma anche liquido e gassoso, o anche terra e cielo e in modo ancora più astratto preda e predatore, libertà e desiderio, la visione e il ricordo, la mano e il bastone, natura e cultura, gli amanti. Qui si vede che l’essere separati e uniti tipico dell’accadere della soglia, per estensione, si allarga al movimento di reciproco riconoscimento o esclusione. Ma è la nascita, come è facile intuire, il prototipo di tutte le soglie: è qui che accade qualcosa di particolare, che ci fa capire il senso di tutto il movimento. In apparenza venire al mondo significa separarsi, diventare due. Ma cosa c’era prima di questo due? Non la madre, perché è la nascita che decreta il suo divenire madre. Non il figlio, per lo stesso motivo. Né l’unità dei due, che non c’erano e quindi non potevano essere uniti. Madre e figlio come enti separati siamo noi a nominarli, a partire da quella nascita e dal nostro sapere “oggettivo” che proprio a partire dalla struttura di quella nascita, poi infinitamente replicata e piegata su di sé nei nostri modi specifici, possiamo costruire, compreso il sapere della nascita. Ma prima, nell’esperienza reale, i “due” non c’erano affatto, né divisi né uniti e sarebbe scorretto portare indietro la nostra consapevolezza e attribuirla loro. Cosa c’era allora? C’era un divenire che era già sulla via della soglia essendo a sua volta costituito da innumerevoli soglie, divisioni e articolazioni del medesimo, ma che propriamente si presentava come mistero. La nascita è infatti «l’uscita dalla perfetta coincidenza del nulla con se stesso per la distanza: esplosione del “via da ogni dove” e “per ogni dove”» (Sini).

Quindi riepiloghiamo: madre e figlio nascono assieme: la madre non fa nascere il figlio più di quanto il figlio trasformi una donna in madre. Il figlio è nella madre; ma la madre è nel figlio. Nessuno dei “due” esiste prima del rapporto che si apre tra loro nel transito di una soglia che li biforca: ciò che prima non c’era, transita e si separa/unisce, si divide restando tuttavia in qualche modo connesso dal vuoto. Il due viene prima dell’uno: è il rimbalzo e provenire reciproco che li fa nascere. Ognuno dei due, quindi, diventa per l’altro un segno, cioè sta al posto di qualcosa di assente: l’unità che non c’è mai stata e che semmai si presenta dopo la nascita ai due come reciproco nulla della provenienza sempre da decifrare, e quindi come destino infinito. Un segno che delimita un territorio singolare e comune che è perfetto così com’è, e che nello stesso tempo allude, rimanda, è memoria di un fondamento che non è mai stato: è il proprio nulla.

Ecco perché, oltre la soglia della nascita e per sempre, questo trascorrere gli uni negli altri, mai fissato una volta per tutte, è lo spazio della continua contrattazione, della decifrazione e del mistero, del catturare e del fuggire di nuovo, dell’enigma e del conflitto. E ovviamente della morte, che sta fin dall’inizio come rovescio della soglia. È solo grazie all’infinito inseguirsi e ripiegarsi nelle figure sempre diverse dell’altro, nell’altalena dell’andare e ritornare, girare in cerchio e spostarsi di un poco al ritmo della rima e del ritornello (cioè delle parole che ri-tornano e ripetendo creano, nel due, la memoria dell’uno che non c’era), che si compone la filastrocca che canta per noi, e noi in lei, la «straziante meravigliosa bellezza del creato». In questa ninna nanna ogni cosa si sposta creando il movimento continuo, il divenire delle cose.

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