l’invisibile che abbiamo davanti

Siamo abituati a considerare le fotografie come spazi visivi che rappresentano in modo pedissequo qualcosa che è accaduto, che “era là”. Il digitale non ha cambiato molto questa consuetudine, anzi l’uso più diffuso delle fotografie le configura come isole di testimonianza nel flusso magmatico della relazione mediata dalla rete.

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Ammettiamo un sovrappiù di “creatività” limitatamente alle fotografie che hanno qualche ambizione di diventare oggetti di contemplazione estetica, quelle il cui soggetto - in genere la natura - è particolarmente “bello” o può sembrare ancora più bello grazie a una qualche abilità tecnica del fotografo. In questo caso diciamo che la foto ci colpisce e ci emoziona.

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L’abilità del fotografo in questi casi non è mostrarci l’inconsueto: in quanto tale, l’inconsueto non viene riconosciuto e raramente ci colpisce, o lo fa solo dopo che è diventato di moda e in seguito, dopo gran tempo, a sua volta consueto, riconosciuto da un vasto pubblico che ama tuttavia sentirsi selezionato per il proprio gusto esclusivo. L’abilità del fotografo è semmai quella di renderci lo spettacolo della natura e dell’uomo in qualche modo familiare, ad esempio riprendendolo come facevano certi pittori di qualche secolo fa, o sorprendendoci con i colori delle pubblicità di oggi, usando magari certe composizioni, certi ritmi di sicuro effetto, certe alternanze di pieni e vuoti che notoriamente seducono lo sguardo o stimolando una blanda sorpresa, quel surreale da passeggio che stimola senza mai turbare. Ciò che ci è familiare è in sostanza un cliché visivo e per questo lo riconosciamo. E, come il cane di Pavlov, ciò che riconosciamo ci fa salivare. Noi chiamiamo “emozione” o “essere colpiti” questo riconoscimento inatteso di ciò che già sapevamo.

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La teoria non esplicita ma dominante su cui ci basiamo è insomma che la fotografia sia un oggetto visivo docile a nostra disposizione, consistente in un velo assorbente da deporre sopra le “cose” che, trasparente e traspirante, come sindone ce ne mostrerà l’aspetto quando dalle cose lo solleveremo portandolo con noi.

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(Coerentemente, sappiamo che il velo non coincide con le cose, anche se a volte lo scordiamo - rispondiamo infatti “è un tramonto” quando dovremmo dire “è una foto di un tramonto”, con effetti a volte piuttosto comici.)

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Questa idea della “fotografia come oggetto” visivo ci porta tuttavia, a volte, a desiderare di poter sollevare definitivamente quel velo, a svelare le cose stesse per poterne fare finalmente autentica esperienza. Da dove sorge questa iconofobia? A volte dal confondere la nostra frustrazione per non saper produrre buone immagini con una loro carenza strutturale, ma più spesso da una forma di fatica: il possesso dell’immagine delle cose che quella teoria ci promette, col tempo ci snerva.

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È proprio nell’aspirazione a togliere il velo, e in quel che ne consegue, che  il castello di carte crolla e scopriamo qualcosa di inaspettato: non c’è alcun velo e non c’è alcuna “cosa” dietro il velo, anzi tutta quella idea della fotografia è un’illusione. Cioè: non sono le immagini ad averci prima illuso e poi snervato con la loro ubiqua ma menzognera presenza che nasconderebbe le cose fingendo di mostrarle, non è questo che ci spinge a desiderare di strapparle per “andare dietro l’immagine”: è anzi proprio la teoria - da theorein: vedere - secondo cui le immagini sarebbero un velo sopra le cose ad averci ipnotizzato fino a farci vedere letteralmente i fantasmi, cose che non esistono e di conseguenza a volerle eliminare. L’idea di “cose reali” che stanno lì di fronte (e il senso di perdita e mancanza che provocano in noi) è modellata per differenza sull’idea di immagine come velo e superficie visiva (a sua volta pallido ricordo di una precedente teoria circa il “visibile ideale e assoluto” di cui le “cose stesse” sarebbero simulacri), e non il contrario come quella teoria ci fa credere. Lo strumento modella l’idea di reale a propria immagine per poi retrodatarlo come propria origine.

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Una grande quantità di mirabili ricerche concettuali e artistiche trarrebbero grande giovamento (o finirebbero nella spazzatura) se la si piantasse di usare “immagine” e “realtà” come enti a se stanti.

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L’invisibile non sta dietro, non è segreto e inaccessibile: è davanti - e anche intorno, a fianco, dentro, attraverso. Rivelarlo vuol dire infatti “mettere di nuovo il velo”: le cose si rivelano solo quando sono coperte. Togli il velo e non trovi niente, o meglio trovi un altro velo: intenzioni, volontà, apparati, dispositivi.

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Ciò che troveresti sollevando del tutto il velo è una distanza per sua natura incolmabile, quindi inattraversabile, tra il raddoppio e il suo medesimo, sorgente stessa di tutte le tracce e segni e strumenti dell’umano come “colui che si distanzia da sé attraverso le proprie figure e strumenti e così si riconosce e porta con sé”. Questa distanza, questo invisibile siamo noi, ovviamente: non è un ineffabile e sintomatico mistero, semmai è il bordo continuamente frequentato di tutto il visibile e dicibile. Questa frequentazione si costituisce come riconoscimento: non è mai coincidenza ma sempre spostamento, provenienza e destinazione interminabile e sua e-mozione.

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Le fotografie allora non sono quello che pensiamo, non sono rettangoli visivi che contengono la memoria dell’aspetto di qualcosa che possiamo limitarci a guardare. Non esiste da nessuna parte una cosa come “limitarsi a guardare”, non esistono immagini come neutrali “oggetti della visione” che si depositerebbero dentro di noi imprimendo la loro forma su un supporto esterno e poi nella memoria, la quale non è una intonsa tavola di cera pronta a venir segnata da “immagini”, le quali a loro volta non sono affatto ovvie configurazioni visive che restano non si sa come a galleggiare nel cervello. Nessuno ha “immagini” dentro li cervello, non c’è alcun cinema o teatro che le proietta nella nostra testa e i neuroni non sono spettatori paganti.

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Le fotografie non sono superfici visive, non sono oggetti visivi: sono superfici d’azione. Sia perché agiscono, sia perché ci fanno agire. Il loro aspetto visivo non è mai separato da una natura prepotentemente attiva. In esse converge un visibile, un dicibile e un fattibile. Sono un campo di proiezioni che generano ulteriori proiezioni in chi guarda, in parte prevedibili e in parte imprevedibili. Sono uno spazio di sintesi sociale, che presuppone un mondo e dispone a riprodurlo operativamente, uno spazio di lavoro che mette al lavoro chi osserva. Non esiste alcuna mera “superficie di visione”: guardare è sempre anche operare: guardare è continuare a guardare, sondare, percorrere, perlustrare, venire attratti, scivolare e resistere, rimbalzare. L’azione del fotografo non consiste quindi nel mettere in piedi un apparato di cattura e dominio dell’oggetto in quanto già visto da esibire come reliquia in un religioso silenzio generale, o nel fare da megafono di un detto per quanto inconsapevole, e nemmeno nel proporsi come padrone assoluto delle proprie buone intenzioni. Il suo lavoro consiste piuttosto nell’aprire la presunta univocità del visibile, del dicibile e del fattibile innescando in essa spostamenti chiaramente registrabili.

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Ciò significa che usare la fotografia ai fini di una cattura estetica, con tutti i problemi che ne
seguono compreso il terminale desiderio di rinunciarvi a favore di altri apparati estetici più tridimensionali o del già citato “ritorno alle cose che starebbero dietro ai simulacri stante il carattere illusorio e truffaldino delle superfici visive”, è per lo più frutto di un equivoco partorito dalla falsa idea che esista la cosa “superficie visiva”.

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Tutti noi, nell’esperienza effettiva, usiamo le fotografie come superfici d’azione, ad esempio in quanto messaggi, spazi di comunicazione complessi e raffinati attraverso cui veicoliamo intenzioni e contenuti: ad esempio nel “sono qui e te lo mostro” che c’è in ogni foto di vacanza che condividiamo sui social, è contenuto anche un “sono un persona interessante e di buon gusto, lo puoi vedere dalle cose interessanti che ti mostro di me e delle mie avvincenti giornate”; il che può essere declinato nei mille modi del “sono brillante e spiritoso”, “sono sensibile”, “sono avventuroso”, “io sì che sono una persona vera”, ma può anche contenere messaggi più diretti come “vorrei che fossi qui” o il più sincero “mi diverto molto, meno male che non ci sei”. Mostriamo un lato selezionato del nostro mondo che sta in piedi grazie all’intelaiatura di cliché visivi che utilizziamo in automatico (la nozione di bello che ci hanno insegnato e di cui non siamo consapevoli).

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Ma come facciamo a usarle in questo modo? Accade perché tutti noi “abitiamo le immagini”, lo sappiamo fare tanto da aver dimenticato di farlo, tanto da credere che “stiamo solo guardando”. Guardare è molto più che guardare. La singola fotografia, composta com’è di vuoti e di pieni, di linee di tensione e di scarico, di toni cromatici che articolano “soggetti” o presunti tali variamente disposti entro il suo perimetro, viene percorsa non tanto “con lo sguardo” come si dice superficialmente, ma da tutto il nostro corpo virtuale che finisce per abitarla, anche per un breve momento: la foto è abitata cioè percorsa con azioni immaginarie che a loro volta sono installate sopra universi di precomprensione culturale ed emotiva, singolare e collettiva, che si compone di riverberi del passato e di anticipazioni del futuro (anzi a rigore fa sorgere le stesse nozioni di passato e futuro, che sono un suo costrutto). Questo processo proiettivo è il principio stesso della comprensione delle immagini, ciò per cui diversamente da altri animali noi produciamo e interpretiamo dei segni come segni, cioè “quasi” come gli assenti di cui sono segni. Non esiste in ogni caso “comprensione immediata” dei segni, ogni comprensione è una tra-duzione interpretante, cioè un portare e condurre sé in un viaggio attraverso un Altro che viene com-misurato in qualche modo a sé. E anche le fotografie che guardiamo, sui giornali o in rete, non sono solo superfici visive neutre, sono luoghi di attivazione della nostra immaginazione e dell’inconscio: veicolano pensieri, convenzioni, ideali, informazioni più o meno veritiere, stimolano ricordi, emozioni, pulsioni inconsapevoli, reazioni automatiche di preferenza o di repulsione che vanno a pescare in contenuti spesso molto profondi e antichi, del singolo o addirittura della specie… Guardando quelle immagini creiamo mondi, non stabiliti una volta per tutte ma continuamente contrattati, in cui l’immagine, l’autore, il fruitore e il contesto si scambiano continuamente i ruoli. Le fotografie insomma possono essere finestre per vedere, tracce di impressioni fotoniche raccolte da specifici punti di vista, specchi in cui riconoscere cosa sappiamo di noi, cosa ignoriamo, cosa vorremmo mostrare e cosa nascondere, di cosa siamo del tutto inconsapevoli e che tuttavia ci guida, nel bene e nel male. Sono macchine, cioè segni, cioè


(testo interrotto nell’originale)


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