Abitare le immagini
June 1, 2025Ancora sul (dis)funzionamento delle fotografie trattato nel post precedente, c’è da chiedersi: ma come comprendiamo allora le fotografie? Non dipende proprio da come sono fatte?
Proviamo a fare per gioco un’ipotesi. Ipotizziamo che l’immagine sappia qualcosa che noi non sappiamo e che, di conseguenza, produrla sia qualcosa di simile a interrogare un oracolo. Quello che chiamiamo “percepire” o “capire” (il funzionamento di un’immagine), in questo caso, potrebbe essere una forma di divinazione e il suddetto funzionamento dell’immagine riguarderebbe quel sapere racchiuso materialmente nelle sue strutture, nelle sue forme e nei suoi colori.
In questa ipotesi fantasiosa, ciò che vediamo essere disposto nell’immagine è perfettamente adeguato al sapere che involontariamente vi abbiamo collocato, e comprenderlo non significa decrittarla (dovrei avere un codice che traduce l’immagine in significati il che presuppone ciò che invece devo ancora trovare), ma qualcosa di molto più semplice, cioè “abitare l’immagine” come il mondo che contiene l’informazione che nel nostro mondo non riusciamo a vedere, cioè percorrere i suoi pieni, i suoi vuoti, le sue linee di forza, i suoi colori come emissari di quella informazione, in modo simile (ma non identico) a come facciamo nel “nostro mondo” in cui siamo immersi in quanto corpi, quando dal nostro muoverci-nel-mondo ricaviamo “in atto” indicazioni, direzioni, informazioni su azioni da fare, retroazioni che ci dicono chi siamo, e così via.
Ecco allora da dove prende il suo fondamento ciò che le regolette per “far funzionare bene le foto” (cioè per usarle come strumento di successo legato a una manipolazione estetica dell’osservatore) chiamano “composizione”, credendo che si tratti di regole estrinseche o “naturali”, quando invece afferiscono al funzionamento di tutte le immagini e sono semmai un risultato.
Non possiamo cioè comprendere un’immagine - meglio: “vedere un’immagine” - senza abitarla come un mondo alternativo e per farlo dobbiamo usare davvero il nostro corpo, anche se in un modo non del tutto fisico.
Ora però c’è un problema di precedenza: se le immagini per esistere come tali devono produrre un mondo alternativo o virtuale che trasporta significati, questa operazione è in qualche modo da intendersi come anonima, non prodotta da un autore cioè da un produttore di significati che a rigore non esiste ancora e semmai è esso stesso il prodotto dell’immagine.
Autori e significati (e al limite anche “umani”) potrebbero essere cioè degli effetti di retroazione di una “tecnica”, la produzione di immagini? Ipotesi interessante. Non ci siamo prima noi che diciamo: “Ma sì facciamo delle immagini, e come le facciamo? Ma seguendo le regole naturali perbacco!”. Au contraire, noi siamo il prodotto delle immagini, del fare figura (siamo magnanimi: dei segni, ciò che sta per altro e vi rimanda) e per questo vi corrispondiamo così bene. Non dovremmo più trattare le immagini (i segni) come un “mondo alternativo”, semmai come il tramite del “mondo” in cui siamo? E i segni, a loro volta, “cosa” li produce? Da dove vengono e perché il corpo sa abitarli e farsene abitare? Bella domanda.
Ecco, non so dove ci abbia portati questo discorso. Spero lontani dai manuali per fare belle foto, perlomeno.