Menti, testi, immagini


«Io traccio il mio bersaglio / intorno all’oggetto colpito, / io non colgo nel segno ma segno / ciò che colgo, baro, / scelgo il mio centro dopo il tiro / e come con un’arma difettosa / di cui conosco ormai / lo scarto, adesso / miro alla mira»
Valerio Magrelli


Prima scena: il pittore ha in mente, più o meno formata, un’immagine finale, prende la tela, il pennello e i colori e la dipinge, utilizzando sapientemente le proprie capacità affinate nel tempo attraverso apprendimento ed esperienza.

Seconda scena: mi metto al computer e scrivo un testo, così che l’A.I. (nello specifico l’A.I. chiamata Midjourney) attivi i suoi algoritmi da qualcuno sapientemente programmati e trasformi quel testo in un’immagine, che più o meno soddisfi la mia richiesta.

Sembrerebbe che in un caso si abbia a che fare con immagini e strumenti, nell’altro con testi e macchine. La prima scena sembra piuttosto muta o afasica, ciarliera - anche se di quella chiacchiera “mentale” tipica dello scrivere e leggere - la seconda. È proprio così?
A me pare che si separino un po’ troppo “linguaggio verbale” e “capacità di produrre figure”, come se fossero due entità distinte.

In realtà il pittore non ha affatto “in mente” il risultato finale in quanto immagine: in mente dove? C’è un luogo della mente che funziona come un cinema, o un archivio di videocassette in cui hanno sede “immagini”, come realtà a sé stanti? Se non ci accorgiamo che questa è un’assurdità (con una sua ben precisa storia che dura tuttora), è solo perché ne siamo assuefatti. Piuttosto egli ha assorbito attraverso un’infinita catena di pratiche di vita e culturali (cioè linguistiche), e attraverso il suo corrispondere a segni che a loro volta sono figure di risposta, un’enormità di saperi generici e specifici che ora circondano e intessono quella specifica “immagine” che egli vuole tracciare. Immagine che, a sua volta, non è una pura e muta emanazione aerea del mondo riflessa nella mente dagli occhi (“mondo”, “mente” e “occhi” i quali, va detto, sono a loro volta “parole” che stanno connesse dentro “teorie” - teorie che, come dice la parola greca, sono “visioni”: non c’è “mondo” senza la sua figura, cioè senza pratiche radicate nel corpo vivente che lo distanziano da sé e che solo alla fine, piegate su di sé, diventano parola e figura), ma è appunto, l’immagine che sta dipingendo, un abito pratico di risposta che presuppone sterminate catene di interpretazione di segni concretizzate, ad esempio, nella pratica storicamente collocata del “fare arte”.

L’immagine che starebbe nella mente è una pura fantasia (che se vogliamo possiamo far risalire a Platone* e alla sua “invenzione della mente”) e semmai procede come retroazione del prodotto (il segno tracciato, da figura a scrittura) sul produttore, che così, grazie alla retroazione dei segni che egli ha prodotto che separano sapere ed essere creando l’uomo come “l’essere che riflettendo sa”, fantastica di essere una pura mente che contiene immagini “visive” (o scarichi neuronali, se vogliamo essere moderni), non rendendosi conto che sta giocando con le proprie stesse metafore, con i propri specchi, facendosene ingannare.

Il pittore non ha quindi solo a che fare con pennello o colore: è a tutta la sua cultura che sta co-rispondendo. E quindi il rapporto con i testi è sì costitutivo della costruzione dell’immagine attraverso l’intelligenza artificiale, ma in qualche modo lo era anche nella pratica pittorica. In Midjourney la faccenda è ora resa esplicita: serve un testo scritto per produrre un’immagine. Del resto lo strumento esosomatico è sempre una funzione del corpo fisico astratta ed estrapolata e come tale il suo uso deve sempre essere “esplicito” perché deve essere riprodotta e programmabile, che sia un bastone che riproduce e prolunga braccio/mano o l’A.I. che riproduce e prolunga la “cultura come automa”, come “macchina linguistica autonoma” specifica della specie Sapiens o in questo caso il produrre figure come sua parte. (È nella sua retroazione che lo strumento esosomatico produce il suo stesso produttore, come detto. Così nel’800, epoca di macchine a vapore, si immaginava che l’uomo fosse un complicato meccanismo di leve e rotori e oggi, epoca di informazione e statistica, lo si crede un complesso algoritmo).

Quindi non esiste da nessuna parte un’immagine che sia immagine e basta, non esistono immagini pure o mute, innocenti o trasparenti: ogni immagine contiene sempre testi impliciti generativi, che stanno nelle intenzioni consapevoli o inconsapevoli di chi la produce, per quanto vaghe o interconnesse esse siano con la generalità della macchina del linguaggio e della cultura in cui egli opera, e può produrre a sua volta infiniti testi interpretativi, che infiniti osservatori possono attivare quando proiettano il proprio “corpo virtuale” nell’immagine abitandola. E d’altro canto non esiste testo che non sia pieno di immagini: il linguaggio verbale è un tessuto di usi figurati, contiene la trama dei loro spostamenti, delle metafore, l’uso di “figure in forma di segni”. Linguaggio verbale e immagini sono gemelli siamesi, parte di un’unica capacità di fare segno e figura.

Resta una domanda: come l’A.I. modificherà la nostra relazione con il “mondo”? Questo è proprio ciò che non si può “vedere”, perché essa è semmai la forma del nostro vedere (cioè interpretare avendo interpretato) per come essa si va allestendo. Per vedere il vedere dovremmo esserne separati, estrarci fuori dalle sabbie mobili tirandoci per i capelli come il barone di Münchausen. Il che non si può proprio fare, essendone come già detto sopra assuefatti. Ogni produttore di specchi è artefice del proprio inganno.


*Platone che è, guarda caso, è anche l’autore della teoria secondo cui il poeta (oggi diremmo l’artista) crea da posseduto e il suo non è vero sapere perché propriamente non “sa” nulla, non ha alcuna chiara “visione con la mente” di cui poter parlare - teoria che solo ribaltata diventa, nel moderno, “l’artista genio”.

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