Il due viene prima dell’uno



Nella poesia era quasi caduta in disuso, ma sopravvive bene nelle filastrocche per bambini e nelle canzoni: la rima è il fossile vivente che ci ricorda l’antica filiazione di ciò che noi chiamiamo poesia dall’antica arte (poesis) del narrare cantando, quella che, con un ossimoro, chiamiamo letteratura orale, cioè la sterminata produzione epica che gli antichi aedi (e prima di loro altri di cui non sappiamo nulla) cantavano in pubblico, nel cerchio della tribù. 

Nella rima noi vediamo assieme due cose: la ripetizione e la memoria. La ripetizione è: qualcosa ritorna e così ne abbiamo coscienza e memoria, perché solo quando ritorna la ri-conosciamo come uguale e insieme differente. In questo movimento circolare e primordiale, il primo non è mai un conoscere, solo il secondo lo è. Il due viene sempre prima dell’uno, che letteralmente “non è (mai) stato” (*). 

Da un punto di vista pratico la rima trasforma un testo piano, diretto e trasparente cioè in sé invisibile perché finalizzato a trasmettere un contenuto (a farlo andare da qui a lì sparendo come testo, cioè come oggetto), in un canto, cioè un oggetto ben visibile finalizzato invece a far risuonare un evento, a farlo restare qui, nel cerchio del canto e della danza. Un testo che contiene delle rime è in qualche modo “alla seconda”, è opaco, è quindi un testo che “si guarda”, “si sa” in quanto testo e non solo in quanto veicolo trasparente. Non procede diritto: continuando a ritornare su di sé e a ripetersi variando, sta in un cerchio mentre lo produce. Come i passi di una danza, il suo movimento a 8 o a spirale procede fino a un certo punto per poi piegarsi indietro e tornare, e di nuovo procede e di nuovo ritorna, a saltelli, a balzi, a retromarce. Perché tutto questo? Il perché sta in ciò che produce, il senso è nei suoi effetti. 

Cantando, o ascoltando qualcuno cantare, proviamo commozione e questo accade molto più spesso di quanto invece accada nella lettura di un testo scritto, a meno che non sia un testo che contiene - in figura, in melodia, in tono, in ritmo - alcuni elementi del canto. 

L’effetto del canto, nel cui grembo sta la rima, è la capacità di sprigionare le emozioni. Tuttavia non sono, quelle che il canto estrae, emozioni sfrenate. Le sprigiona, ma nello stesso tempo pare trattenerle: il risultato di questo doppio gesto è di farle ruotare intorno a noi. Detto in altri termini: le educa (le porta-fuori). Nel canto le e-mozioni si ri-guardano (diventano sostanze, come vedremo) e si ri-conciliano. Rima, melodia, ritmo, tutto concorre a questo risultato: la melodia ritorna continuamente su di sé, proprio come fa la rima, non solo perché si ripete nelle strofe, ma perché segue un ritmo, cioè la cellula basilare della ripetizione, la cellula in cui il due - la coppia, la relazione - precede l’uno e doppiandolo lo crea, creandone la memoria. 

In genere si dice che gli antichi inventarono l’artifizio della rima per ricordare meglio quei lunghissimi componimenti recitati e cantati, in un tempo in cui ancora non esisteva la scrittura come supporto alla memoria. Classico modo di invertire causa ed effetto. Bisogna semmai intendere che la memoria inventò gli “umani” - che non esistevano e semmai iniziavano solo allora a essere tali - (e la coscienza!) come effetto del loro stesso cantare. Cosa cantavano? Di nuovo la memoria, cioè gli antenati, insomma i morti. E ne facevano sepoltura (uno dei primi riti di cui a quanto pare abbiamo testimonianza, che evidentemente conteneva in sé canto e danza). Voltandosi indietro, cantavano la propria memoria nel momento in cui potevano vederla - solo l’uomo infatti vede l’invisibile, l’assente: posso dire “cavallo” ma non c’è nessun cavallo qui. Il linguaggio non è che una continua evocazione di ciò che non c’è, del morto cantato. 

Ciò che veniva agito nel rito, era agito come rito: forma e contenuto si rispecchiano e ciò avviene per tutti i sensi e in tutti i modi che noi chiamiamo “cultura”. Il ritorno indietro dello sguardo su ciò da cui siamo venuti, su chi ci ha generati, l’invenzione della memoria e della storia come “ciò che possiamo sapere e dire” (e non solo subire o agire, come nell’animale), accade come canto cioè come ritorno della rima, che batte sul calco del ritmo - il battito continuo e ripetitivo che continua a ritornare, come di legno che batte “a tempo” su un altro legno: su questo si fonda ciò che chiamiamo musica. Ma è lo stesso ritorno costituito dalla figura dell’animale tracciata dalla mano “umana” sul fondo della caverna che “doppia” il mondo, su cui si fonda ciò che noi chiamiamo pittura. 

Il mondo (una sua parte) doppia se stesso in figura cioè nel proprio perfetto limite e confine, nel limite in cui è perfetto (ecco il senso della figuralità) e così può guardarsi nel proprio specchio, nello specchio che lui stesso è. Ciò che sta diventando uomo ma è ancora mondo piega il mondo/sé su di sé, è il mondo che si auto-piega e così crea la distanza sempre incolmabile (perché ciò da cui proviene non “c’è” prima) del proprio destino. Solo in questa ripetizione - del ritmo, del suono, della voce, della figura - solo ritornando, voltando, solo piegando sé su di sé, il mondo può vedersi (vede sé) e può prendere consapevolezza di sé. 

Per questo si e-moziona: l’emozione qui non è ancora un sentimento dotato di una propria sostanza, ma è il senso della propria pro-venienza: emozione è “venire-da” (ex-movere), provenire. Ogni provenienza che scopre se stessa si e-moziona, si com-muove (si muove assieme), cioè si ri-conosce: ecco il senso del rito e del canto degli antenati come fondazione della “cultura” umana. Ma ogni provenienza, come tale, comporta anche una destinazione, ogni riconoscimento (dell’uno che “non c’è mai stato” ma sorge nella memoria e come memoria) produce un destino. Sempre dovrai rimembrare di nuovo perché non sarai mai una volta per tutte nel posto da cui provieni (non ci sei in effetti mai “stato” perché ancora non “eri”, lo divieni di continuo “rimemorandolo in avanti”), e questo rimembrare, che non può riposare in un ritorno impossibile, l’uomo se lo figura nella forma della ripetizione sempre diversa, nel ritmo, nella rima, nella forma, nel canto: sempre sarai nel cerchio interminabile delle rimemorazioni, cioè delle interpretazioni. 

Tutto quanto nell’orizzonte dell’umano è piegatura di piegatura, ritorno di ritorni, ripetizione di ripetizioni. L’uomo che noi vediamo come salto in avanti, è in quello stesso gesto (nello stesso tempo, che qui inizia a sorgere) una piegatura indietro. E in questa piegatura pratica - gestuale, verbale, musicale, corporea, figurale ecc - del mondo su di sé scaturisce il “significato”, cioè il canto dell’assente in quanto segno di nulla: ma qui si riconosce e si assegna la nostra interminabile destinazione, l’afferramento sempre rimandato, la danza senza fine che crea il mondo.


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(*) È il mistero della somiglianza: come può una cosa somigliare a un’altra - un cavallo a un altro - o addirittura a se stessa se ogni volta non è che un fascio di impressioni? Dovremmo avere in mano un terzo - un “modello” - per confrontare l’impressione passata con quella presente e coglierne le ricorrenze, trovare “lo stesso”. Senza somiglianza, non esisterebbe alcun tipo di conoscenza, mentre l’esperienza ci dice che tutti gli animali “riconoscono”. Mistero che la metafisica logica dei Greci risolse ribaltando il sapere degli antichi prima di loro, rigettandolo come “magia” oscura e insensata e inventandosi la prigione immobile del “mondo dello spirito”, l’iperuranio: sede dei “modelli ideali”, dell’eidos concettuale - il “visibile con la mente” cioè “l’immagine mentale”, la sostanza immateriale opposta a sostanza corporea, punto di origine dell’idea di anima immateriale ed eterna come seme del Dio in noi, che funzionando da medio ci permette di conoscere l’impressione B come ritorno dell’impressione A e di poter dire: è un cavallo.

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