Fotoromanzi

Con il lavoro “Fotoromanzi” (un cofanetto che raccoglie otto libretti) intendo esplorare e discutere il rapporto tra dimensione verbale del racconto e dimensione visuale della fotografia, cioè mi metto in bilico sull’epicentro dei più consueti e spesso catastrofici luoghi comuni dello storytelling fotografico.
A questo scopo utilizzo un archivio personale di fotografie documentarie e di uso comune raccolte in alcuni anni, riassemblate in sequenze e associate a un apparato verbale costruito ogni volta ad hoc sulla base di escamotage verbali di vario tipo: la favola, il motto di spirito, il micro-racconto umoristico, la verifica, l’approccio concettuale, quello lirico o filosofico.
Grazie a un format grafico seriale ed esplicitamente anacronistico, “Fotoromanzi” mette in scena una vibrante e del tutto inefficace, ma corrosiva protesta contro le modalità ermetiche, iniziatiche e alla fine decorative più in uso nella costruzione di sequenze fotografiche. Modalità nelle quali si demanda al fruitore il compito di colmare i vuoti di un testo visivo oscuro e a volte francamente aleatorio, ma di pretesa profondità. In questo modo, se in apparenza si esalta il visivo, in realtà lo si svuota collocandolo in posizione ancillare di un "verbale mancante" che spesso nemmeno l’autore conosce, poiché confonde l’oscurità di un sapere riservato agli eletti con l’uso di cliché di cui non ravvisa l’origine. È questa concezione a mantenere spesso la fotografia in uno stato di minorità sia nei confronti della letteratura, di cui scimmiotta le strutture senza poter vantare una sintassi, sia verso le arti visive, di cui si nega la concettualità senza poter sopperire con una liricità che resta amatoriale.

“Fotoromanzi”, con il suo stile esplicito, dichiarativo e improbabile, preferisce a tale sedicente aristocrazia del gusto la chiarezza illuministica e democratica di un atteggiamento diretto, intendendolo come profilassi igienica per il recupero di un corretto e paritario rapporto tra visivo e verbale.

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